CORTEI

XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

C’è un primo corteo nel vangelo di oggi. È composto dal Signore Gesù, dai suoi discepoli e da numerosa altra gente. Lo possiamo immaginare festoso e lieto. La fede del centurione ha, ancora una volta, offerto al Verbo incarnato l’occasione di rivelare la misericordia del Padre nei confronti della nostra umanità ferita. 

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain,
e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla (Lc 7,11)

Alla porta della città sfila però, in processione, un altro corteo. Funebre, triste, mesto. È il cammino verso il sepolcro di una madre, già vedova e ora anche privata dell’unico e ultimo conforto di un figlio. 

Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto,
unico figlio  di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei (7,12)

Che cosa possiamo riconoscere in questa immagine, se non il destino — inevitabile — cui va incontro la nostra madre terra: condurre alla morte le cose, le persone, le relazioni che essa genera in questo mondo. Ogni giorno, passa davanti ai nostri occhi, il principio o la coda di questa addolorata processione. C’è una vita a cui partecipiamo che è destinata a morire. Lo sono le cose che tocchiamo e viviamo quaggiù, sopra una terra che può generarci a una piccola e temporanea felicità. 

Vedendola, il Signore Gesù fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!».
Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono (7,13-14)

Gesù senza essere invocato sente compassione e agisce. Voce della sua (futura) chiesa, chiamata lungo i secoli della storia a offrire agli uomini il conforto di una speranza eterna, annuncia a questa donna che esiste la possibilità di non piangere. La nostra società cerca in ogni modo di placare il pianto con la cultura dell’intrattenimento, del benessere, del consumismo. I moderni cortei servono a sfuggire a questa tristezza. Il Signore Gesù si permette di interrompere il canto del dolore, a partire invece dalla conoscenza di una vita più grande rispetto a quella in cui crediamo di essere partecipi e vittime: quella in cui si muore e poi si risorge. Quella in cui Dio non si stanca e non smette di dare la vita. 

Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!».
Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo rstituì a sua madre (7,14-15)

Il problema, infatti, non è che domani moriremo, ma che oggi lo siamo già. Ogni volta che giacciamo come bambini incapaci di parlare, di portare al mondo le parole di Dio. Agli occhi del Signore invece noi siamo ragazzi chiamati a stare in piedi e a vivere. Non solo figli della madre piangente che è l’umanità, né solo partecipi del corteo funebre della nostra società. Ma soprattuto chiamati a diventare figli del Padre della vita, fratelli del Signore Gesù che è l’ultima parola della nostra esistenza. La speranza che rialza e rianima i nostri passi. 

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