CON MITEZZA

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Dopo averci indicato la porta stretta come il luogo in cui è necessario passare, questa domenica il Vangelo precisa pure il modo con cui occorre attraversarlo, per tendere a una vita autentica, ricca di senso e di felicità. Il Maestro Gesù propone la «mitezza» (Sir 3,17) come atteggiamento di fondo, da assumere di fronte agli altri, a Dio e, naturalmente, anche di fronte a se stessi. Una voce assolutamente fuori dal coro, nel palcoscenico chiassoso e rissoso dei nostri giorni, triste scenario dove ottenere un «primo posto» (Lc 14,8) — qualunque e comunque — è il grande mito da tutti inseguito.

Senza arroganza
La sapienza antica del Siracide afferma: «Quanto più sei grande, tanto più fatti umile», perché «ai miti Dio rivela i suoi segreti» (Sir 3,18.19). La mitezza, indicata da tutte le religioni come indispensabile virtù, porta con sé molti significati. Esprime la tenerezza e la maturità, la mansuetudine e la benevolenza, l’amabilità e la fertilità. Affine per molti versi all’umiltà, la mitezza si identifica con la realtà più nobile presente nelle persone e nelle cose che davvero contano nel mondo. Possiamo pensarla come quel modo disarmato e disarmante di manifestare se stessi che crea comunione, perché refrattario a qualsiasi logica di egoismo e di autoaffermazione. Oppure a quella «potenza grande» (3,20) che risplende in modo stupendo nella natura, che tutti ci ospita e ci nutre senza far rumore. Occorre però fare attenzione a non confondere la mitezza con quell’atteggiamento inerme che affonda le sue radici nell’insicurezza e nella disistima di se stessi. Molte volte questo torbido terreno, con cui tutti dobbiamo fare un po’ i conti, ci porta ad assumere soltanto le forme della mitezza, ma non la sua realtà. Essere miti — secondo la sapienza della Scrittura — significa avere un «cuore» che «medita» e un «orecchio attento» (3,29), essere cioè persone che vivono un contatto profondo e leale con tutta la realtà. Inermi perché vigili. Pacifici perché contenti. 

Senza pretese
Il Signore Gesù, invitato un giorno a pranzo «a casa di uno dei capi dei farisei» (Lc 14,1), osservando «come gli invitati sceglievano i primi posti» (14,7), deve essersi accorto di come i nostri atteggiamenti manifestano spesso il contrario della mitezza. Questo gli offre l’occasione di darci due insegnamenti, due strategie per affrontare il nostro quotidiano imbarazzo a essere e a esprimere noi stessi. La prima è semplicissima: «Quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto» (14,10). Il Maestro con queste parole non ci vuole autorizzare a coltivare quei modi con cui talvolta ci nascondiamo vistosamente dagli altri, nella speranza di sentirci presto dire da qualcuno: «Amico, vieni più avanti!» (14,10), ma, più precisamente, desidera indicarci la forma più semplice e serena per imparare a scoprire qual è il nostro posto, qual è la situazione in cui la nostra vita è capace di fiorire e di portare il suo frutto. Siamo tutti continuamente protesi alla ricerca — spesso disperata — di un “posto al sole”, sopravvalutando i nostri reali bisogni, e condizionati dal terrore di venire presto o tardi detronizzati: «Cedigli il posto!» (14,9). La terapia dell’ultimo posto è la correzione urgente da assicurare a un cuore troppo spesso in ansia di prestazione e di riconoscimento.

Senza contraccambio
Osservando poi come «colui che l’aveva invitato» si era circondato di «amici», «fratelli», «parenti e «ricchi vicini», il Maestro propone una seconda terapia d’urto contro la nostra abitudine a fare le cose in vista di un «contraccambio» (14,12). Anche questa è di una semplicità imbarazzante: «Quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (14,13-14). Siamo tutti abbastanza prigionieri e sudditi di un mondo economico, che ci educa quotidianamente a vivere il rapporto con le cose e con gli altri secondo una logica di profitto, o quanto meno di utilità. Facciamo le cose — persino le più belle e le più sacre — in vista di un riconoscimento e di un tornaconto. Con estrema fatica, riusciamo a perseverare quando la colonna delle entrate si azzera o, peggio ancora, comincia a essere scritta in rosso. Per il Signore Gesù non esiste altra strada se non quella di cambiare strada. Rivolgersi a chi non ci può dare nulla in cambio, significa fare finalmente i conti con quella parte di noi stessi che non siamo ancora disposti ad accettare. Quella porzione brutta, claudicante, inutile e ferita, di cui i poveri e gli infermi sono perfetta rappresentazione. Solo nella misura in cui accettiamo di assumere questa metà improduttiva di noi stessi, possiamo entrare senza tentennamenti nella logica dell’amore, che si fonda sulla gratuità che mai calcola e sul perdono che sempre accoglie. Naturalmente ciò è possibile nella misura in cui ci sentiamo «avvicinati» (Eb 12,18) e vicini non a un Dio terribile — simile a «un fuoco ardente, a oscurità, tenebra e tempesta» (12,18) — ma a un Padre «vivente» (12,22) e amante della vita, che ha scritto «nei cieli» i «nomi» di noi tutti, figli amati e «primogeniti» (12,23), chiamati a partecipare per sempre «all’adunanza festosa» (12,22) della «risurrezione dei giusti» (Lc 14,14). Un Padre che prima di chiederci qualsiasi cosa, ce la dona. Anzi, ce l’ha già donata nel Figlio suo «Gesù, mediatore dell’alleanza nuova» (Eb 12,24).

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