(S)LEGARE

Giovedì – XIII settimana del Tempo Ordinario

La pagina della Genesi che la liturgia oggi ci offre non può che suscitare un certo imbarazzo. Appare crudele un Dio che domanda ad Abramo di sacrificare il suo figlio — il suo unico figlio giunto in età avanzata — sebbene tutto ciò risulti essere alla fine solo una prova in vista di una benedizione, che si estende a tutte le nazioni della terra.

In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria
e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,1-2)

Abbiamo definito questo episodio «il sacrificio di Isacco» ma, a ben vedere, chi è chiamato ad accettare una dolorosa separazione è anzitutto Abramo, che deve scegliere di prendere assoluta distanza dal suo attaccamento al figlio. Forse il nome più adeguato per esprimere il mistero narrato in questa pagina biblica è quello che assegnato dalla tradizione ebraica: «l’aqedah, cioè la legatura di Isacco». Infatti l’unica cosa che succede è proprio la deposizione del figlio legato sull’altare da parte di Abramo.

«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, 
collocò la legna, legò sui figlio Isacco e lo depose sull’altare, sopra la legna» (22,9)

Sarebbe ingenuo ignorare che la pratica di sacrificare i primogeniti era in uso in Israele nell’antichità. D’altro canto ridurremmo la narrazione biblica a una banalità se il significato di questo racconto non fosse altro che comunicare il mutamento dal tempo in cui bisognava sacrificare a Dio i figli a quello in cui è sufficiente offrire il sangue degli animali. Il testo dice molto di più.

«L’audacia del racconto è di attribuire a Dio l’antica imposizione. Come se Dio dicesse: 
tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla 
perché non c’era altro modo per liberartene» (Paul Beauchamp)

Con la venuta del Signore Gesù, non abbiamo più dubbio alcuno sul fatto che Dio non sia qualcuno che ci chieda di sacrificare i doni della vita, ma al contrario voglia slegarci dalla morsa terribile del peccato, che lega la nostra vita alla morte.

«Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati» (Mt 9,2) 

Eppure è così frequente la sensazione di salire e risalire sempre su un monte dove la vita rischia di sfuggirci dalle mani. In un attimo, il volto di Dio appare minaccioso e la sua volontà sembra soltanto ratificare gli avvenimenti dolorosi e tristi che hanno ci hanno lacerato il cuore: un matrimonio fallito, il dono mancato di un figlio, la perdita o la rottura di alcuni legami, una malattia, un tradimento. I rapporti che non abbiamo saputo costruire o custodire gettano in noi il sospetto che Dio ci chieda di rinunciare alla vita che ci ha donato. La parola di Dio oggi ci ricorda invece che alcuni legami hanno bisogno di entrare nello spazio della prova per divenire autentici. E per restituirci il volto di un Dio impossibile da dimenticare. 

Abramo chiamò quel luogo «Il Signore vede»; perciò oggi si dice:
«Sul monte il Signore si fa vedere» (Gen 22,14)

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