FIDUCIA

XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Esiste una parte migliore nella vita, che possiamo imparare a scegliere per uscire definitivamente dall’infanzia, riconoscendo nell’altro un fratello a cui offrire il volto e il cuore. Questo “di più” che non ci può essere tolto da niente e da nessuno è la vocazione a cui Dio ci ha chiamato attraverso il dono della vita, che si alimenta attraverso la preghiera. La liturgia di questa domenica ci fa volgere lo sguardo verso «il mistero della preghiera» che Cristo «ci ha insegnato» e testimoniato. Una preghiera semplice e chiara, da farsi «con fiducia e perseveranza» (cf. colletta).

Padre premuroso
Già i testi antichi della Genesi tratteggiavano un Dio attento e premuroso di fronte alle vicende dell’umanità da lui creata: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutti il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!» (Gen 18,20-21). Inutilmente cercheremmo di rintracciare in queste parole l’intenzione rabbiosa di un Dio che vuole, il più presto possibile, giudicare e castigare gli uomini. Siamo davanti allo sconforto di un Padre, che soffre e non riesce a stare immobile sentendo le grida di dolore della sua umanità che trasforma la vita in esperienza di morte, attraverso il male desiderato e scelto. Abramo sembra intuire quanto prevalga in Dio la misericordia rispetto al giudizio. La Scrittura lo descrive nell’atto di avvicinarsi a Dio per ingaggiare con lui un patteggiamento serrato: «Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio» (18,25), fino a piegare il cuore di Dio verso la piena compassione: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (18,32). La preghiera di Abramo scopre e manifesta un Dio che sembra disposto a fare ciò che noi gli chiediamo, che ascolta «le parole della mia bocca», che mi ridona vita quando «cammino in mezzo al pericolo», e che mi fa esclamare: «Il Signore farà tutto per me» (cf. salmo responsoriale). Quando siamo piccoli infatti, un padre non ha altro modo per dichiararci il suo amore, se non attraverso quell’attenzione premurosa con cui cerca di venire incontro al nostro grido e al nostro bisogno. Per esaudirci, finché le nostre richieste sono buone o accettabili, finché non giunge il tempo in cui dobbiamo dobbiamo crescere e diventare adulti «nell’esperienza dell’amore» (colletta).

Figli invadenti
A discepoli ormai maturi, il Maestro ha svelato un giorno il segreto della sua preghiera, che ormai è anche la nostra: «Padre...» (Lc 11,2). In queste parole ci è stato insegnato a chiedere poco, ma a farlo sempre, addirittura con «invadenza» (11,8). La preghiera è il respiro con cui dobbiamo imparare a mettere, quasi caparbiamente, il nostro bisogno «quotidiano» (18,3) davanti al Dio che, donandoci l’esistenza, deve anche provvedere al suo adeguato nutrimento. Questa minuscola preghiera — ancora più breve in questa versione distillata di Luca — educa il nostro cuore a non ingolfare il rapporto con Dio con troppe parole, ma a concentrare nell’immagine di un pane «nostro» l’atteggiamento di fiducia che è nutrimento all’amore. Infatti, le note esplicative che Gesù aggiunge alla preghiera ci aiutano a capire che il modo con cui ci rivolgiamo a Dio è quasi più decisivo di quello che diciamo. Attraverso la parabola dell’amico invadente, che osa andare di notte a chiedere tre pani, il Signore Gesù manda in crisi gli atteggiamenti inutilmente devoti con cui stiamo davanti a Dio, talvolta solo per nascondere timori ed egoismi: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?» (11,11-12). La principale «tentazione» (11,4) è la sfiducia che abbiamo e coviamo nei confronti di un Dio che spesso avvertiamo come crudele o, almeno, un distratto. Dopo tutte le preghiere non ascoltate e i sogni non realizzati, fatichiamo a credere che esista davvero un Padre premuroso e attento, capace di provvedere a tutti i nostri bisogni.  

Crescere
«Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!» (11,13). Con estrema franchezza, il Maestro ci smaschera e ci salva. La verità non è che Dio sia cattivo, ma che il nostro cuore lo è diventato, complice di una vita sociale e individuale che spesso è come un «documento scritto contro di noi» (Col 2,14). Anziché accontentarci di quello che c’è, siamo sempre alla ricerca di quello che manca, come figli viziati e capricciosi. Anziché abbracciare la vita come una missione d’amore, bisognosa in fondo soltanto di una forza divina — lo Spirito Santo — eccoci ogni giorno a mendicare prove e conferme d’amore, per sentirci ancora una volta coccolati, apprezzati e voluti bene. Ammettiamolo: a noi, francamente, basterebbe molto meno dello Spirito Santo. Ci accontenteremmo di un po’ di pace in famiglia, un ambiente lavorativo più sereno, una migliore comunità di fratelli, un marito, una moglie, dei figli. Tutte cose legittime e belle che, però — guarda un po’ — il Signore si è dimenticato di includere, quando uno di noi gli ha chiesto: «Signore, insegnaci a pregare» (11,1). Se così stanno le cose, se Dio è un Padre pieno di amore per noi, che ha inchiodato alla «croce» (Col 2,14) di suo Figlio «tutte le colpe» (2,13) nostre; se noi siamo figli chiamati a cooperare con lui nella storia del mondo, forse possiamo ricominciare a costruire i nostri giorni su quella dura roccia che si chiama fiducia. Appoggiare i nostri sogni e i nostri desideri su questo invisibile atteggiamento del cuore è l’unico vero riscatto che il cielo ci accorda continuamente. Solo dalla fiducia, infatti, nasce anche la tenacia che trasforma il mondo nel «regno» (Lc 11,2) di Dio, dove ci si vuole bene come fratelli, perdonandosi «i peccati» (11,4) a vicenda. Unicamente attraverso la fiducia il labirinto dei nostri giorni diventa una strada percorribile, dove le cose si trovano e le porte si aprono. Perché quando si chiede e si gusta il necessario, il superfluo diventa finalmente superfluo, non più un pretesto per rinviare a domani il momento di fare della nostra vita un regalo, il tempo di vivere da «risorti mediante la fede nella potenza di Dio» (Col 2,12). 

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