APPROSSIMARSI

XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Entrare nella vita adulta significa abbracciare la vita come missione affidataci da Dio. Più lasciamo cadere gli atteggiamenti infantili che ancora condizionano i nostri passi, più la traiettoria del nostro cammino diventa una linea retta, protesa in avanti. Sì, siamo frecce nella faretra di Dio che possono testimoniare la fedeltà del suo amore. Dobbiamo solo fare attenzione a non prenderci troppo sul serio in questo incedere e così fallire il bersaglio. Il vangelo di questa domenica, senza ingenuità, ci segnala il rischio di oltrepassare l’obiettivo del nostro essere uomini e cristiani, di non cogliere nel fratello da amare «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15).

Il prossimo
Un «dottore della Legge» (Lc 10,25) mette alla prova il Maestro Gesù, con una domanda circa  «il compendio e l’anima di tutta la Legge» (cf colletta) di cui conosce già la risposta: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (10,27). Gesù sta al gioco e replica: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (10,28). Già, fosse facile! Chi è capace di amare in questo modo, tutti i giorni? Di fronte a questa “chiamata” iscritta nel nostro cuore, tutti tendiamo a giustificarci con ipocrita arguzia. Anziché confessare sinceramente che è difficile e che non siamo capaci, esclamiamo: «E chi è mio prossimo?» (10,29). Dietro questo interrogativo, si nasconde una sottile sfida rivolta a Dio. Quel Dio che talvolta sembra metterci in situazioni eccessivamente esigenti per le nostre deboli forse, o che sembra pretendere troppo dal nostro cuore piccolo e meschino. Il Signore Gesù accetta la sfida, raccontando una parabola diventata tra le più care e note alla tradizione cristiana. Un malcapitato, saccheggiato e picchiato dai «briganti», rimasto «mezzo morto» (10,30) sulla strada che da Gerusalemme scende a Gèrico, non riceve compassione né da «un sacerdote» (10,31), né da «un levita» (10,32), due trafficanti del sacro incastrati nelle fitte maglie della Legge, la quale decretava immondo chi toccava un morto. Un Samaritano invece, che in nessuno modo doveva sentirsi in obbligo di prestare soccorso visti i pessimi rapporti con i Giudei (cf. Gv 4,9), «passandogli accanto» lo «vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33). Lo medica, si prende cura di lui e lo mette a riposo in un albergo per qualche giorno. La domanda del Maestro è super retorica: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (10,36). «Chi ha avuto compassione di lui», ovvio. «Va’ e anche tu fa’ così» (10,37), conclude Gesù. 

Avvicinarsi
L’interrogativo del Signore Gesù rovescia i luoghi comuni del buonismo svenevole e scontato, del volontariato utilitaristico. Il prossimo non è semplicemente colui che ci viene addosso o bussa alla nostra porta, ma il povero cristo che incontriamo ogni giorno, il quale con le sue «sofferenze» e le sue «miserie» si mostra ai nostri occhi bisognoso, facendo da specchio alla nostra povera umanità. È l’altro a cui possiamo avvicinarci, offrendo l’accoglienza del nostro sguardo e il calore di «un cuore attento e generoso» (cf colletta). Il prossimo non è la persona che gratifica il nostro ego infantile e in cerca di approvazione, ma il povero che non ha nulla da darci e tutto da chiederci. Davanti a un simile uomo, che quasi sempre è nella lista dei volti familiari — quelli che in casa, in ufficio, per strada ogni giorno incontriamo — noi ci fermiamo solo quando siamo disposti ad accettare in noi stessi i segni di morte che egli ci mostra. Al prossimo ci avviciniamo quando ci accorgiamo di essere simili a lui: una povertà che ha bisogno di essere amata e salvata. Come noi. Finché i nostri traumi restano irrisolti, le nostre ferite scoperte e sanguinanti, noi possiamo soltanto scappare davanti a chi ci ricorda che anche noi stiamo già camminando mezzi morti nel viaggio della vita.

Avvicinàti
Ci conviene ammetterlo, a noi tutto questo è impossibile! Magari lo abbiamo fatto — per qualche tempo — forse lo sappiamo fare — per qualche ora — ma il più delle volte questa radicale chiamata ad amare Dio e il prossimo con tutto noi stessi trova la porta della nostra disponibilità ben serrata. L’amore è una splendida avventura che presenta un conto altissimo al nostro cuore. Ci succhia energie a ogni ora, ci strappa gli anni della giovinezza come vuoti a perdere, ci consegna ad autunni densi di solitudine e ricordi. Ci chiede e poi non restituisce. Per questo arriva il momento in cui gridiamo: «Basta», «Non ce la faccio più». A meno che non solleviamo lo sguardo verso Cristo, che sulla croce ha mostrato la possibilità di un amore che non finisce mai. È lui «il buon samaritano del mondo» (cf colletta), colui che ha guardato con compassione la nostra vita mezza morta a causa del peccato e ci ha posto nell’albergo della Chiesa dove ci si nutre di compassione ricevuta e offerta. Dobbiamo fare attenzione a non prendere troppo sul serio la chiamata a diventare buoni e belli come Dio ci ha sognato. Prima di sentirci chiamati a diventare erogatori di carità ventiquattrore su ventiquattro, trecentosessantacinque giorni all’anno, conviene ricordarci che abbiamo un assoluto, continuo bisogno che il volto di Cristo incontri e conosca le nostre ferite, che il suo amore lenisca il peso della nostra solitudine e ricolmi i nostri vuoti. Solo nella misura in cui ci lasciamo amare diventiamo capaci di avvicinarci all’altro senza paura e senza superficialità. Solo se rimaniamo in sereno contatto con la nostra miseria sappiamo avvicinare anche quella altrui e dedicare ad essa il conforto della nostra umanità. Senza eroismi, né forzature. Con naturalezza. Umilmente. 

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