AMARE MOLTO

XI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Dio, che non si stanca mai «di usarci misericordia» (cf colletta), solleva in questa liturgia domenicale un tema impegnativo: il peccato. Affrontarlo per noi oggi è piuttosto difficile. Siamo come stretti in una morsa, ugualmente tentati di non parlarne affatto o di parlarne troppo. Soprattutto di quello che vediamo nella vita degli altri. Invece è importante saperlo riconoscere dentro i recinti della nostra libertà. Anzi, è l’unico modo per tornare nei ranghi di una vita piena, condita di molto amore. 

Peccare
Nel racconto del secondo libro di Samuele vediamo anzitutto che il peccato è qualcosa che l’uomo tende a nascondere. Il profeta Natan deve ricorrere a molte parole prima di smascherare il re Davide, adultero e omicida: «Così dice il Signore, Dio d’Israele: Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro» (2Sam 12,7-8). Non sta elaborando un ricatto affettivo il Signore, né presentando il conto dei suoi doni. Sta cercando di annunciare a Davide da quale rapporto d’amore e di fiducia è decaduto. Questo è sempre il primo e più difficile passaggio da compiere per riconoscere i nostri peccati. Volgere lo sguardo a Dio per verificare se e quanto la nostra intima amicizia con lui è ancora un legame vivo. I peccati infatti non si misurano davanti allo specchio dei nostri perfezionismi, ma di fronte alla misericordia del Signore, l’unico serio parametro con cui valutare i nostri passi. Solo dopo aver fatto questo possiamo esporci all’accusa e formulare nella libertà di un cuore infranto le parole del pentimento: «Ho peccato contro il Signore!» (12,13). Ed ecco l’inattesa rivelazione: quando l’uomo si riconosce peccatore davanti a Dio, non è più la morte, ma la vita, il suo destino. Dice il profeta a Davide: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato; tu non morirai» (2Sam 12,13). 

Non giudicare
L’esperienza vissuta da Davide viene teologicamente elaborata dal fariseo Paolo, che dopo aver compreso che «dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno» (Gal 2,16) si converte alla grazia del vangelo e arriva a dire: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (2,20). Questa è la grazia accessibile a chi si scopre e si riconosce peccatore davanti a Dio. La realtà non si legge più con i nostri occhi, ma con quelli di chi ci ama ed è pronto a offrire la sua vita per noi. Dopo aver usato male la nostra libertà ed essere andati fuori bersaglio, la nostra reazione e quella di Dio sono radicalmente diverse. Noi tentiamo di smacchiarci e ci odiamo perché non ne siamo capaci, rimanendo chiusi in una sorda e sterile collera. Il Signore, invece, non si sofferma mai sul peccato, ma sulla sofferenza conseguente che noi patiamo. Perché per lui peccare non significa anzitutto trasgredire una norma, ma fallire il bersaglio, sbagliar-si. Non sbagliare qualcosa, ma sbagliare sé, non realizzarsi. Per questo cerca subito di portarlo alla luce e di farci capire che abbiamo cominciato a fare quello che non è il nostro bene, ciò che in fondo non desideriamo davvero. E, per evitare che ci consideriamo dei falliti, si limita a notificare il fallimento della nostra libertà. 

Amare di più
Molto diverso è invece l’atteggiamento di Simone, l’altro fariseo che invita Gesù a mangiare da lui. Al sicuro nella sua tenda di buone maniere e osservanze religiose, non si rende conto che il suo peccato è ancora nascosto, mentre quello della donna manifesto e, in qualche modo, già sanato: «Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo» (Lc 7,37-38). Nel vedere questa scena, molte avrebbero potuto essere le reazioni: stupore, commozione, invidia, indifferenza. Dal cuore di Simone esce invece la più gelida: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (7,39). Il Maestro non scuote la testa e non denigra. Racconta una parabola dal significato ovvio, per informare il fariseo del mortale rischio che sta correndo: quello di essere un giusto senza amore: «Tu non mi hai dato un bacio; lei invece, da quando sono entrato, non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai unto con olio il mio capo; lei invece mi ha cosparso i piedi di profumo» (7,45-46). Dio poteva salvarci in molti modi dalle paludi del nostro egoismo. Ha scelto di farlo diventando amabile e raggiungibile dagli slanci del nostro cuore. Offrendo per noi la sua vita e amandoci senza condizioni, ha deciso di suscitare in noi il meglio sepolto e assopito: «E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). In questa domenica siamo invitati — anzi costretti — a chiederci se il nostro rapporto col cielo segue logiche di amore o, semplicemente, di buoni rapporti. Se il freno a mano della passione è ancora alzato o, finalmente, sbloccato dalla tenerezza di un Padre che continua a effondere su di noi generosamente la sua carità. È questa l’unica condizione che rende sostenibile la leggerezza dell’essere e la pesantezza del quotidiano. Essere liberi di amare molto — con quale altra misura si potrebbe amare? — è la risposta cristiana ai problemi del mondo. Sul serio. 

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