DAYYENU

Festa dei Ss. Filippo e Giacomo

Durante la festa di Pasqua, gli ebrei riuniti a tavola per la celebrazione dell’haggadah — il solenne memoriale della salvezza di Israele — sono soliti fare un canto, il cui ritornello pone sulle labbra di tutti i presenti le parole dayyenu, che in ebraico significano: «sufficiente per noi». Il testo di questo inno passa in rassegna tutte le grandi opere che Dio ha realizzato per il suo popolo lungo i secoli: l’uscita dall’Egitto, il cammino nel deserto, il dono della Legge, l’eredità della Terra. E, in corrispondenza di ogni opera di Dio, ciascuno risponde cantando dayyenu, «questo ci sarebbe bastato». Si tratta di un canto di origine medievale, di cui troviamo però, nel vangelo scelto per la festa odierna, una curiosa anticipazione nella richiesta che l’apostolo Filippo pone a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). La domanda di Filippo, l’apostolo che oggi festeggiamo insieme a Giacomo di Alfeo, detto il minore, ci offre un’immagine di quel desiderio presente nel cuore di ogni discepolo che, entrando in contatto con l’affascinante relazione che Gesù vive con Dio, comprende quanto la conoscenza del Padre sia «la verità» indispensabile alla «vita» (14,6). Le domande, niente affatto retoriche, attraverso cui il Signore Gesù risponde sono un invito a non cercare il volto del Padre lontano da quella autorevole mitezza con cui ha deciso di manifestarsi nell’umanità del Figlio: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? [...] Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (14,9-10).   

Esiste in noi un’assillante pretesa di avere ulteriori segni e conferme del bene che Dio — come Padre — nutre nei nostri confronti. A motivo di questa aspettativa, ci rifiutiamo di accogliere tante occasioni come sufficiente appello a entrare nella vita adulta dei figli di Dio, non riuscendo a intuire che il momento di autenticare la speranza del vangelo è proprio il tempo presente. Il segreto che unisce il Figlio al Padre e il Padre al Figlio è il mistero di un rapporto paritario, seppur segnato da un’irriducibile diversità: «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me» (14,11). Anche agli apostoli il Signore Gesù ha consegnato un invito a non rimanere confinati dentro le determinazioni e le tirannie dell’infanzia: «In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (14,12). Non è possibile guardare il volto del Padre senza accogliere il dinamismo della sua stessa vita. La paternità di Dio non è l’ultima, divina rassicurazione con cui ci proteggiamo dai rischi dell’esistenza, ma il definitivo sprone a crescere «fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13), per diventare creature libere di ricevere e di restituire il dono della vita. 

In fondo questo — a noi — poteva bastare: essere «salvati» (1Cor 15,1) dai nostri peccati (15,3), diventando figli del Padre e fratelli di ogni uomo. Ma — a Dio — questo non è bastato: ha voluto renderci «luce delle nazioni» (Is 49,6) per portare la «via» (Gv 14,6) del Vangelo «fino all’estremità della terra» (Is 49,6), la sua parola di salvezza fino «ai confini del mondo» (cf. salmo responsoriale).

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