LE PECORE ASCOLTANO

IV Domenica di Pasqua – Anno C

Per niente scontato immergersi nella forza rigeneratrice della Pasqua. Bisogna superare le tristezze del cuore (Tommaso) e uscire dalla ragnatela dei sensi di colpa (Pietro). Una volta affrontati questi preliminari ostacoli, l’avventura della vita nuova in Cristo diventa un’affascinante questione di ascolto. Siamo «pecore», ci ricorda infatti questa domenica il vangelo, e il Signore Gesù è il pastore che con la sua «voce» (Gv 10,27) ci guida «alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17), ponendo la nostra vita al sicuro nella «mano del padre» (Gv 10,29). 

Hannukàh
È sempre molto utile conoscere qualcosa del contesto storico e culturale che fa da sfondo alle narrazioni evangeliche. Per capire fino in fondo le poche parole del vangelo odierno, è addirittura essenziale. Il Maestro le pronuncia nella cornice della «festa della Dedicazione» (Gv 10,22), in ebraico festa di Hannukàh. A differenza di altre solennità religiose radicate negli insegnamenti della Torah, questa festa è tardiva. La sua istituzione risale infatti al periodo in cui la terra di Israele era dominata dai Seleucidi (III-II sec. a.C.), dinastia ellenista che aveva raccolto l’immensa eredità geografica conquistata da Alessandro Magno. Tra i vari re che si avvicendarono nel territorio palestinese, il più terribile fu certamente Antioco IV Epifane, il quale stravolse i costumi e le tradizioni più sacre degli ebrei, fino all’introduzione nel tempio di Gerusalemme di un’altare dedicato a Zeus. La zelante famiglia ebraica dei Maccabei organizzò una rivolta per cancellare questo abominio. I Seleucidi furono sconfitti e il tempio di Gerusalemme venne riconsacrato con una festa solenne, la festa di Hannukàh appunto. Dedicare nuovamente il tempio, significava restituirgli la sua esatta simbologia di spazio religioso edificato per custodire l’autentica «parola del Signore» (At 13,44.48.49). Infatti, nella parte più sacra e inaccessibile del santuario erano conservate le tavole della Legge, le dieci parole scritte sul monte Sinai dal dito di Dio e consegnate per sempre al popolo come cammino di vita e vincolo di alleanza.

In buone mani
Sappiamo che, proprio nel vangelo di Giovanni, Gesù ha cominciato ben presto a parlare «del suo corpo» come del nuovo «tempio» (Gv 2,21). E i primi cristiani, con analoga immediatezza, hanno subito capito di essere partecipi di questa misteriosa realtà attraverso il loro corpo umano, battezzato nella persona e nella pasqua di Cristo. Proprio così: il nostro corpo è un tempio, simile a quello di Gerusalemme, consacrato a una parola che lo abita. Dio desidera che nel cuore di questo tempio ci sia la voce del suo Figlio, morto e risorto per noi. Dice infatti Gesù: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (10,27). Sempre, in ogni istante, noi andiamo là dove il cuore ci orienta. Se la parola che ascoltiamo e seguiamo è quella di Cristo, quella del vangelo che la Chiesa annuncia e insegna, si apre davanti a noi un destino straordinario: «Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (10,28), assicura il Signore Gesù. In appena due versetti è condensata tutta l’esperienza riservata ai discepoli di ogni tempo. Ascoltare la parola del vangelo significa scoprirsi conosciuti e intercettati nei desideri più profondi. Seguire le orme di Cristo vuol dire entrare in una vita qualitativamente alta, bella e piena. Vuol dire non vivere più l’esperienza di essere perduti per sempre, perché niente e «nessuno» è capace di «strappare» (10,29) la nostra vita dalla misericordia di Dio. L’amore del Padre è «più grande di tutti» (10,29) e di ogni cosa. 

Senza sconti
Purtroppo non è sempre vero che il corpo del cristiano, così come il corpo della Chiesa, sia abitato esclusivamente e autenticamente dalla parola di Dio. Gli scandali, le incoerenze, le lentezze della comunità dei credenti ne sono triste conferma. Non sono e non possono essere mai i segni esteriori a garantire la nostra appartenenza al Dio della «vita» (Ap 7,17) e della «gioia» (At 13,52). L’unica speranza del nostro sincero tentativo di «perseverare nella grazia di Dio» (13,43) è intimamente legata a una costante e combattiva disponibilità ad accogliere «la parola del Signore» (13,44). Se non possiamo mai essere assolutamente certi di avere nel cuore del nostro tempio interiore la voce di Dio, possiamo però continuamente scegliere di consacrare a essa il nostro tempo e le primizie della nostra attenzione. Con coraggio, con fedeltà. La cronaca degli Atti degli Apostoli ci ricorda come sia possibile respingere la voce di Dio, fino al punto da giudicarsi non «degni della vita eterna» (13,46). La parola di Dio, infatti, non ci immette in una corsia preferenziale, ma ci fa passare attraverso «una grande tribolazione», immergendo le nostre vesti «nel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14). Ci insegna a diventare uomini e donne liberi dai morsi della «fame» e della «sete» (7,16), capaci di amare. È un percorso impegnativo, esigente, totalizzante, che richiede impegno e passione, e nel contempo ci fa «pieni di gioia e di Spirito Santo» (At 13,52). Dio non farà nulla al nostro posto, ma sempre «stenderà la sua tenda sopra» (7,15) i nostri passi, porrà «una nuvola come un tappeto» (Sal 105,39) a difesa del nostro diventare adulti, del nostro essere «destinati alla vita eterna» (At 13,48). 

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