DIVENTARE ADULTI

III Domenica di Pasqua – Anno C

Cristo è risorto. La luce della sua Pasqua risplende nella Chiesa e illumina la vita del mondo. Eppure ci resta un cammino da compiere perché la nostra vita sia raggiunta e rischiarata da questa speranza. Un cammino ostacolato dalle nostre paure, dai nostri tentativi di tornare indietro, di ricominciare a fare affidamento su noi stessi. Per fortuna più forte di ogni nostra reticenza è il desiderio che il Signore risorto ha di manifestarsi a noi, per trasformarci in persone adulte, cristiani maturi. Questo è la buona notizia della terza domenica del tempo di Pasqua.

Niente da fare
Dopo la tragedia del venerdì, l’imbarazzante silenzio del sabato e l’impossibile speranza del sepolcro vuoto, i discepoli tornano in Galilea. In fondo, erano stati angeli ad impartire l’invito alla ritirata (Mc 16,7; 28,7). Amareggiati, lividi per il senso di colpa, delusi e affranti, i seguaci di Cristo provano a chiudere la bella parentesi. «Io vado a pescare» (Gv 21,3) esclama Pietro, rompendo il ghiaccio. Tutti gli altri lo seguono: «Veniamo anche noi con te «(21,3). Ma, niente da fare, «quella notte non presero nulla». Succede così nella fede, nella vita: si prova a rifare ciò che in passato ha saputo riempirci un po’ la pancia, appagarci i sensi, placare appetiti e desideri. Si tenta di utilizzare quelle povere reti che la vita, in fondo, a nessuno nega. Ci succede dopo un po’ di anni di parrocchia, di vita religiosa, di matrimonio, di lavoro, quando ci sentiamo stanchi e vuoti. E ci illudiamo di poter tornare a giocare le solite carte, ad esibire quei quattro talenti con cui abbiamo imparato a conquistarci un po’ di fama e di affetto. Ma non funziona più. Resta un vuoto. «Nulla» ci sazia fino in fondo. «Nulla» ci pacifica davvero. Nulla. La vita è diventata un cubo magico che non si mette più in ordine. Tempo sprecato individuare errori e colpevoli. È così e basta !

Qualcosa da fare
In mezzo a questi patetici tentativi di tornare indietro, il Signore c’è, anche se non  non siamo capaci di riconoscere immediatamente la sua presenza. Mentre si conclude la nottataccia dei discepoli senza alcuna pesca, «Gesù» è già «sulla riva», ma «i discepoli non si erano accorti che era Gesù» (21,4). Antipaticissima la sua domanda: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?» (21,5). Risposta secca e col broncio: «No» (21,5). Gesù non si ferma: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete» (21,6). Oltre che inopportuna, la parola di Gesù ora diventa assurda e apparentemente ridicola. Eppure i discepoli la ascoltano, forse colti da un presagio: «La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci... centocinquatatré grossi pesci» (21,6.11). Il discepolo amato capisce e grida: «È il Signore» (21,7). Il focoso principe degli apostoli si ricompone e si getta in acqua per raggiungere il Maestro. Colazione insieme, abbracci, sorrisi. Si realizzano le parole del salmo: «Alla sera ospite è il pianto e al mattino la gioia» (salmo responsoriale). Anche se a volte quello che il Signore ci comanda — attraverso tante mediazioni — può risuonarci insensato e bislacco, dobbiamo ammettere che, dal fondo di certe notti, nemmeno il nostro buon senso ci salva. Non basta la nostra buona volontà per farci «rivivere» dopo certi traumi, non gli slanci zoppicanti del nostro cuore a far «risalire» la nostra vita da certe tediose paludi. La vita non cambia provando a vivere nuove emozioni, cambiando pettinatura o facendo un giro all’Ikea, rinnovando un po’ il guardaroba o progettando qualche esotica vacanza la prossima estate. La vita cambia quando finalmente impariamo ad usare bene le reti che Dio ci ha regalato e il nostro nulla diventa cifra di pienezza.

Qualcuno da glorificare
Ma Pietro resta in paranoia, anche dopo il clamoroso segno. Troppo bruciante la sconfitta vissuta con il rinnegamento. Troppo vivo il ricordo della sua meschinità davanti a una serva qualunque, mentre il Maestro veniva processato e condannato a pochi metri di distanza. Già, anche se Dio si manifesta e ci gonfia di nuovo le reti, a volte questo non è sufficiente per risollevarci. Restano macigni nel cuore che la fede non riesce a rimuovere, ferite che stentano a risanarsi. Il Signore capisce, si avvicina a Simone e per tre volte gli chiede se lo ama. Anzi, la terza volta abbassa il tiro e gli chiede soltanto: «Mi vuoi bene?» (21,17). Il cuore di Pietro si spacca e finalmente risorge. Capisce che il Signore lo ha davvero perdonato. Anzi, intuisce che l’avventura con lui può già ripartire. Il maestro lo guarda con amore e lo conferma capo degli apostoli: «Pasci le mie pecore» (21,17). Non solo, gli annuncia un nuovo futuro: «In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderei le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi» (21,18). Gli disse questo per indicargli «con quale morte avrebbe glorificato Dio». Poi aggiunse: «Seguimi» (21,19). Pietro torna discepolo perché Gesù, con il suo perdono, lo ha fatto crescere. Prima Pietro era giovane, pieno di boria e di se stesso. Adesso è diventato adulto, perché si è riconciliato con i propri limiti. Lo specchio del suo narcisismo si è spaccato ed è diventato un uomo umile. La trasformazione vissuta da Pietro è paradigmatica per ogni cristiano. Finché siamo giovani, andiamo infatti dove ci pare, ci vestiamo come ci pare, facciamo quello che vogliamo. È la condizione dell’io infantile, dell’immaturità, dell’adolescenza. È il tempo in cui obbediamo a noi stessi e ci diamo i ruoli che più ci aggradano. Quando si incontra un amore che ci salva e ci chiama — quello di Dio — si può entrare nell’età adulta. Finalmente si impara a «obbedire a Dio invece che agli uomini» (At 5,29), ad accogliere le cose e gli altri per come sono e non per come vorremmo. Si capisce che nella vita c’è molto meno da decidere e molto più da valorizzare, poco da scegliere e molto da saper accogliere e vivere bene. Giunti a questa maturità, siamo il miglior spazio pubblicitario per Dio in questo mondo. Sia la nostra vita, sia la nostra «morte» diventano momenti in cui Dio è «glorificato» (Gv 21,19).

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