IN MEZZO

V Domenica di Quaresima – Anno C

Dio non vuole la morte dell’uomo, ma sua vita nel bene e nella verità, perché è infinitamente misericordioso, come papa Francesco ieri ha voluto sussurrare con energia alla chiesa e al mondo, nella sua prima domenica come vescovo di Roma. In virtù di questa inossidabile bontà, il Signore non ci condanna quando pecchiamo, ma desidera perdonarci. La liturgia odierna ci pone «in mezzo» al crocevia di sguardi, parole e giudizi che, spesso, patiamo come le atmosfere rigorose e fredde di un’aula di tribunale. E ci lascia nel mezzo finché non riusciamo a restare soli davanti a quell’unico sguardo che ci conosce fino e in fondo e, quindi, può dire la nostra verità, offrendoci il giudizio della misericordia.  

Ai peccati
Una donna colta in flagrante adulterio (Gv 8,4) viene posta davanti a Gesù, per vedere come questo strano Maestro se la cava di fronte a un caso dove sembra difficile coniugare rigore e clemenza. Gesù sceglierà di mostrarsi indulgente e lassista — categoria di profeti apprezzatissima dallo star system di ogni epoca — oppure inizierà a usare finalmente il bastone del giudizio e a spargere un po’ di sangue — come ama fare l’altra casta sempre pronta a far pagare gli altri piuttosto che esporsi in prima persona — così da non perdere il consenso di chi ritiene che nell’agenda di Dio ai primi posti ci sia quello di fare giustizia nella vicenda umana? Né l’una, né l’altra cosa. Il Signore Gesù sta in silenzio e, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra (8,6). Il gesto evoca tante cose, al punto che l’opinione dei commentatori si articola in mille proposte: scrive per terra i peccati degli accusatori, cerca di tracciare linee di misericordia nei loro cuori induriti, costringe a ripensare al dono della Legge che Dio offre all’uomo fatto di polvere. Forse tutte queste cose insieme, e nessuna in particolare. Di certo gli uomini non afferrano l’invito rivolto a loro dal silenzioso gesto del Maestro e insistono. Sembrano non saper proprio immaginare un Dio che non interviene immediatamente davanti al peccatore, ma che sceglie di chinarsi, di prendere tempo, di differire il momento della condanna. Sembrano aver dimenticato come si sente quando si è in mezzo ai peccati, quando ci si ritrova a dimorare tra macerie e ricordi che sanguinano come ferite ancora aperte. Il loro cuore è duro, solido e solo come quelle pietre che tengono in mano. Come il nostro quando ci induriamo a causa del male offerto o sofferto.

Agli sguardi
Allora Gesù si alza e dice agli uomini inferociti parole il cui significato deve essere molto simile a quello del gesto appena compiuto: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei (8,7). Poi si abbassa di nuovo e col dito riprende a scrivere per terra, lasciando il tempo a tutti di ritrovare uno sguardo migliore sulle cose. Invitando ciascuno a posare gli occhi sulla realtà non solo a partire da quello che è stato, ma anche da quello che potrebbe essere. Non solo a partire da come ci capita di vedere le cose, con rabbia, sdegno e collera, ma anche da come tutti abbiamo bisogno di sentirci guardati e accolti, con comprensione, mitezza e amore. Non sta scritto in quanti istanti la collera di quegli uomini si placò, né se i loro volti mutarono d’aspetto. Neppure se lasciarono cadere la pietra dalla mano e il giudizio di condanna dal cuore. Sta scritto solo che quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani (8,9). Voltarono le spalle a colei che era rimasta orfana di qualsiasi futuro. 

A noi
Così, in un istante e con una sola parola, si compirono le antiche profezie: Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? (Is 43,18-19). La voce sognante del profeta, che a suo tempo invitava gli esuli a credere che Dio è capace — e soprattutto desideroso — di mettere nuove strade dentro i nostri deserti e in mezzo alle grandi acque in cui annaspiamo, diventa quella del Figlio che annuncia il volto del Padre misericordioso. Perché noi, pur essendo ormai battezzati nel suo nome, così facilmente lo dimentichiamo? Al punto da sentirci autorizzati a giudicare gli altri, anziché invocare per noi e per tutti quella misericordia che (da) sola può fare nuove tutte le cose. Perché non ricordiamo che, in fondo, nessuno (Gv 8,11) ci può giudicare? Nemmeno Dio, perché ci ama. San Paolo ne era così persuaso che la sua vita ha cominciato a essere una corsa inarrestabile, dove è superfluo, anzi dannoso, voltarsi indietro, col rischio di perdere velocità o direzione: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù (Fil 3,13-14). 

In questa domenica siamo invitati a deporre quelle pietre che tornano nelle nostre mani, calamitate dalla sofferenza e dalla solitudine che tante volte ancora proviamo. Giudicare senza misericordia non serve a nulla, se non a moltiplicare il dolore, ad approfondire le distanze tra chi è chiamato a essere fratello — cioè prossimo — di tutti. Mentre veniamo continuamente misurati e valutati da parametri economici e materiali, la Parola di Dio ci annuncia con forza la libertà di riconoscere il valore della vita guardando al Dio crocifisso che sta in mezzo a noi come colui che (ci) serve. Solo quando riscopriamo che di fronte alla nostra vita c’è soprattutto il suo volto, possiamo veramente rialzarci con la forza di non cadere più nella palude del peccato, ripieni di tutto il vangelo che (non) meritiamo: Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più (Gv 8,11).

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