FAVOLOSO PADRE

IV Domenica di Quaresima – Anno C

Il Dio che ci ha invitato nel deserto per fare quaresima desidera comunicarci tutta la bellezza che il nostro cuore va cercando. Non è un Dio lunatico o distratto, che permette disgrazie o infligge punizioni. È un Padre misericordioso, pazzo d’amore per i suoi figli che siamo noi. Noi che fatichiamo ad accogliere questo legame con lui, sedotti da una falsa idea di libertà, prigionieri di una fedeltà a cui manca troppo spesso la gioia. Il vangelo di questa quarta domenica di quaresima ci fa cadere tutti dal trespolo, ci costringe a rimettere a fuoco quale volto di Dio stiamo adorando.

Falsa libertà
Un uomo aveva due figli — racconta il Maestro — Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze (Lc 15,11-12). Il resto del racconto è assai noto, ha ispirato le opere di numerosi artisti lungo i secoli. Il figlio minore se ne va con ciò che gli sembra dovuto, si allontana dal padre e comincia a vivere in modo dissoluto (15,13-16). In questo pugno di versetti è riassunta metà della storia umana. Si racconta di quando ci capita di bruciare la vita, con la ribellione, la trasgressione, il peccato. Si parla della nostra infinita adolescenza dello spirito, veloce a maturare e dura a morire, che ci spinge ad affermare ripetutamente il nostro io, considerando temibile o concorrente il legame con il padre. È quel tragitto a tutti noto, inizialmente divertente e galvanizzante, alla fine colmo di amarezza e solitudine. Il figlio minore si ritrova vuoto e desolato, privo di quel cibo che perfino i porci hanno. Allora ritorna in sé (15,17) e decide di tornare da suo padre. Non perché ha finalmente capito di essere amato, ma perché ha fame. Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! (15,17), questo è il suo pensiero. Non si è convertito, ha soltanto messo da parte il suo orgoglio. Il padre lo vide tornare quando era ancora lontano (15,20), perché era rimasto alla finestra con il cuore gonfio di attesa e di dolore. Senza alcuna esitazione gli si gettò al collo e lo baciò, impedendogli di umiliarsi ulteriormente. Gli dona l’abito più bello (15,22), uccide il vitello grasso (15,23), e fa festa (15,23). Il suo cuore impazzisce di gioia perché questo figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato (15,24).

Falsa giustizia
L’altro figlio ha un problema persino maggiore (15,25) del fratello prodigo tornato a casa. Di ritorno dai campi, dove aveva sgobbato tutti il giorno, al sentire la musica e danze (17,25) non capisce più nulla: si indigna e si paralizza. E non voleva entrare (15,28) in casa, scrive con finezza psicologica Luca. Il padre, questa volta, non rimane in attesa come aveva fatto con il figlio minore. Esce di casa e va a supplicare il figlio che rimane fuori dalla festa della misericordia. Capisce bene che questa difficoltà cardiaca è più grave e difficile da curare di quella che ha portato il figlio minore a divorare il patrimonio di famiglia con le prostitute (15,30). Il figlio maggiore è in realtà uno schiavo incatenato al senso del dovere, incapace di godere le gioie della vita, così orgoglioso da non saper chiedere nemmeno un capretto per  far festa (15,29) con i suoi amici. Anche in questa triste figura, è dipinta mezza umanità che ci circonda e che ci portiamo dentro. Fedeli, sgobboni, coerenti, ma infelici, perché ancora ignari che le cose più importanti della vita non vanno conquistate a caro prezzo, perché ci sono donate. Tutto sommato insicuri, perciò duri e severi con tutti. Ancora ignari di essere amati ed eredi. Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo dice il padre al figlio stizzito, tentando di mostrargli il suo grande affetto, provando ad offrire anche a lui la forza trasformante di un abbraccio. Ma il figlio non reagisce. Non dice nulla, non parla, non si muove. La parabola finisce così, con un invito a cercare nel nostro cuore le parole per concludere il finale aperto di questo drammatico dialogo. Il Signore Gesù aveva infatti raccontato questa parabola non per i peccatori, ma per i farisei e gli scribi che mormoravano (15,2) e che probabilmente avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri (18,9). Per noi, appunto.

Vero Padre
La parabola racconta i due problemi che abbiamo sempre davanti a Dio. Uno è minore, si esprime nella ribellione e nelle forme della trasgressione; l’altro è maggiore, si nasconde nella coerenza e nelle forme dell’osservanza religiosa. Al di sopra di queste due tragiche fughe dal nostro limite fondamentale, il vangelo ci mostra la figura di un Padre favoloso, che il nostro cuore stenta a credere. Un Padre che ci accorda un’infinita libertà in cui vivere e crescere, anche passando attraverso l’errore e il fallimento. Che sa attendere, soffrire a distanza, che non accusa né rinfaccia, che perdona, fa festa, che non smette mai di aver fiducia nei suoi figli. Un Padre davvero umile, disposto anche a supplicare i suoi figli, quando il loro cuore è arroccato dentro paura e pregiudizio. Che non abbandona mai la forza del dialogo, per battere altre vie. Che offre un sorriso al broncio, un’ultima possibilità davanti a qualsiasi rifiuto. Un Padre scandalosamente prodigo, che dona amore dalle viscere e trae misericordia dall’intelligenza. Come solo un uomo e una donna insieme sanno fare. Davanti a un simile Padre può davvero continuare la nostra Quaresima. Davanti ad un amore così bello e solido, possiamo stracciare la lista sempre infinita delle recriminazioni, scegliere di non dare soddisfazione alle passioni inutili, disertare gli sterili orgogli. Come figli liberi e responsabili, possiamo ricominciare a prenderci il meglio della vita. Per questo, solo per questo, continuiamo a vivere sotto un cielo paziente.

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