ESSERCI

III Domenica di Quaresima – Anno C

Il deserto è il teatro in cui si svolge l’occasione della quaresima. A contatto con le nostre tentazioni (I domenica), ma consapevoli di essere in cammino verso la bellezza di Dio (II domenica), oggi ci raggiunge la notizia che la conversione è un fuoco che ci vuole far ardere senza consumarci, una questione di vita o di morte. Difficile sentire questo appello urgente, coinvolti in un mondo superficiale e materialista, travolti dai ritmi frenetici di una vita che corre senza sapere dove sta andando. Eppure indispensabile, perché i fatti di ogni giorno ci ricordano che camminiamo continuamente tra la vita e la morte. La realtà non smette mai di provocare la nostra coscienza. Spalanca domande a cui non possiamo sottrarci troppo a lungo.

Vita e morte
Ai tempi di Gesù era successo un fatto orribile. Alcuni Galilei erano stati sgozzati da Pilato, proprio mentre offrivano i loro sacrifici (Lc 13,1) a Dio. Una morte spaventosa, senza dignità. Anche perché il sangue, nella mentalità ebraica, conteneva la vita stessa dell’uomo. Perciò il suo mescolarsi con il sangue degli animali era ritenuto davvero un destino infame e vergognoso. Pilato, probabilmente, aveva ritenuto necessario sfoderare ancora una volta i muscoli davanti agli Israeliti, per ricordare loro chi comandava a quel tempo in Palestina. Quando questo fatto viene riferito a Gesù, la sua risposta è a dir poco sconcertante: Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo (13,2-3). Il Maestro cambia radicalmente il punto di vista, facendo breccia nei pensieri non detti dai messaggeri di sventura. Addirittura, cita un altro fatto di cronaca nera, la rovina di una torre che aveva ucciso diciotto persone a Gerusalemme (13,4), per ribadire la stessa domanda — credete che fossero più colpevoli ? — e per rilanciare lo stesso avvertimento: Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo (13,5). C’è un significato da scoprire in questa reazione strana e, apparentemente, indelicata del Signore Gesù. Come in molte altre occasioni, anziché stare al gioco delle nostre domande, il Maestro ci costringe a riconoscere quale interrogativo stiamo formulando di fronte alle cose. È sempre dietro l’angolo infatti il rischio di porci davanti alla (nostra) storia con le domande sbagliate, quelle che non hanno o non meritano risposta. 

Da lontano
Con le sue esclamazioni e le sue domande, il Maestro non ha altro intento che dirci come la paura che in noi sorge di fronte a una tragedia o a una disgrazia sia il frutto di una domanda sbagliata. Spesso noi tendiamo a porci in modo distaccato davanti alle cose brutte e dolorose che capitano. O filosofeggiamo su Dio, cominciando a mettere in discussione la sua sedicente universale bontà, oppure iniziamo a mormorare, ritenendoci in qualche modo superiori agli altri — e in un certo senso anche a Dio. In questo modo tentiamo di porci a distanza di sicurezza da avvenimenti che non sappiamo né capire né addomesticare, con domande piuttusto inutili: “Perché questa cosa è successa a me?”, “Perché questa malattia, questa rottura proprio nella mia famiglia?”, “Ma perché non arriva mai per me l’occasione di poter essere un po’ di felicità?”. E continuiamo a stare male, senza trovare alcuna consolazione nella fede, arrabbiandoci. La voce di Gesù ci aiuta a capire che non esistono risposte a tutte le domande che esplodono nel nostro cuore. Dio ha creato il mondo dentro una certa libertà, per cui non tutto è riconducibile puntualmente al suo volere o alla sua progettazione. Piuttosto, anziché incavolarsi perché i nostri interrogativi non trovano risposta, quando la vita diventa inspiegabile, è meglio cambiare domanda. Se continuiamo a sbattere contro lo stesso muro, forse dobbiamo accettare il fatto che un muro non è una porta, che dobbiamo fare un passo in un’altra direzione e convertire la rotta del nostro cuore. 

Da vicino
Le Scritture ci mostrano un Dio che non si pone in modo distaccato e filosofico davanti alla storia umana. Nel racconto dell’Esodo, dove Mosè vive l’esperienza del roveto ardente, noi scopriamo il volto di un Dio che davanti al dramma di una storia umana segnata dal male e dal peccato sceglie di avvicinarsi e di coinvolgersi con essa. Dice il Signore a Mosè: Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto (Es 3,7-8) fino a rivelare il suo nome: Io sono colui che sono! (3,14), che significa: “Io ci sono e ci sarò, Io sono con voi”. Un nome splendido che in Cristo, il Dio con noi (Mt 1,23), assumerà la sua rivelazione piena. Anche nella parabola di Gesù troviamo lo stesso volto accondiscendente. Il Maestro racconta di un fico sterile, che sperimenta la pazienza e la premurosa cura di un padrone che si lascia convincere dal suo vignaiolo: Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se non, lo taglierai (Lc 13,8). Se da lontano le cose sembrano talvolta orribili e irrimediabili, da vicino scopriamo che ogni cosa ha un destino di santità, perché ha a che fare con Dio e con il mistero della sua misericordia. Forse dobbiamo semplicemente smettere di farci le solite, assurde domande davanti alle cose che ci capitano e lasciare invece che siano gli avvenimenti tristi e dolorosi della nostra storia a porci le domande che servono, quelle che non amiamo ascoltare. Nella vita non possiamo pretendere di capire tutto, soprattutto le cose che hanno ferito o spaccato in due il nostro cuore. Ma possiamo permettere alla vita di comprenderci nel suo mistero, di coinvolgerci di più e meglio nei suoi profondi bisogni, che Dio ha affidato anche alla nostra libertà. Il Signore c’è, e con il suo amore sostiene questo mondo che soffre e muore ogni giorno, per condurlo fino alla gioia della risurrezione. E noi, ci siamo davvero?

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