NOBLESSE OBLIGE

IV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

In questa domenica la liturgia ci fa ascoltare il mancato lieto fine della prima omelia pubblica di Gesù. La brutta reazione degli abitanti di Nazaret, che decidono di cacciare fuori dalla sinagoga e dalla città il Maestro, diventa per la comunità cristiana un paradossale vangelo per meditare il carattere profetico della sua irriducibile vocazione a essere segno e strumento di Dio nel mondo.

Estranei
Lo spiacevole episodio accaduto al Signore Gesù — culturalmente condensatosi nel proverbio nemo profeta in patria — non racconta solo il mistero della chiusura di fronte all’annuncio di salvezza che Dio ha rivolto all’uomo mediante la sua scelta di incarnazione. Denuncia pure uno strappo, una lacerazione che ogni essere umano deve affrontare, quando la sua vita matura fino al punto da manifestare la sua vera origine e, quindi, anche il suo ultimo destino. «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22). Lo stupore dei nazaretani tradisce la preoccupante incapacità di non saper andare oltre l’ovvio e il risaputo di fronte all’uomo Gesù che, giunto nella pienezza dei suoi anni, decide di rivelare al mondo la sua identità e la sua missione. Gesù intuisce subito questa resistenza e la indica senza paura: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”» (4,23). I suoi concittadini non riescono ad accettare che Gesù possa essere altro e, soprattutto, andare oltre quello che essi sanno e pensano di lui. Per questo vengono ricondotti subito a due episodi biblici in cui a ricevere grazia sono proprio degli stranieri: la vedova di Sarèpta a cui viene mandato il profeta Elìa e Naaman il Siro, lebbroso purificato dall’intercessione del profeta Eliseo. Questo è il «dramma dell’umanità» (cf. colletta) che la liturgia di oggi prende di petto: ciò che determina il senso profondo di una vita umana non è la sua genealogia, ma la sua intima e ultima provenienza. Gesù nella sinagoga di Nazaret inizia a manifestare quella matrice celeste che ogni uomo e ogni donna è chiamato a scoprire, accogliere e manifestare nella sua vita terrena. 

Familiari
È stata questa la profonda convinzione che ha animato e sostenuto il ministero del profeta Geremia, figura anticipatrice degli aspetti più drammatici del cammino umano del Signore Gesù. Nel suo cuore in ascolto della Legge di Dio si è scolpita la profonda verità di queste parole: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5). Geremia ha dovuto svolgere un difficile ministero che annunciava parole scomode da dire e dure da accettare, unicamente mosso dalla certezza di un’appartenenza a Dio che consentiva alla sua umanità di affrontare e vincere qualsiasi paura. E, al contempo, certo che la paura più grande sarebbe stata quella di non rimanere fedele a se stesso e alla chiamata ricevuta: «Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro» (1,17). Diventiamo stranieri in questo mondo — inaccettabili in qualche modo — quando prendiamo sul serio il fatto che la radice più vera e profonda che determina la nostra esistenza non siano né i nostri genitori, né gli ambienti e i percorsi che hanno plasmato la nostra storia e il nostro carattere, ma Dio, sorgente della vita di ogni cosa. 

Amanti
Nella misura in cui prendiamo sul serio questa radicale nobiltà che ci ‘obbliga’ a vivere all’altezza della nostra umanità, possiamo superare la tirannia dell’infanzia e aspirare «ai carismi più grandi», scegliendo la «più sublime» (1Cor 12,31) via dell’amore vero. Arriva per tutti il momento in cui la vita adulta merita di essere scelta in piena libertà: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (13,11). Solo quando ci congediamo dal bisogno spasmodico di essere accolti e conosciuti, possiamo aprirci a un amore più grande, scritto fin dalla notte dei tempi dentro il tessuto sacro della nostra umanità. Altrimenti ci affanniamo per molte cose, rincorriamo tante conoscenze, ci perfezioniamo in numerose arti e virtù, ma senza mai essere fino in fondo noi stessi: «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla» (13,1-2). Solo l’appartenenza a Dio e al suo regno, alla sua volontà e al suo universale disegno di salvezza, ci proietta in un amore profondo e concreto, capace di saziare il nostro cuore e regalarci tutta la bellezza a cui siamo chiamati: «Ora dunque rimangono tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (13,13).

Commenti