IN TENTAZIONE

I Domenica di Quaresima - Anno C

In Quaresima noi cristiani ci esponiamo, volontariamente, alla tentazione. Per imitare il Signore Gesù che dopo il suo battesimo si è lasciato guidare «dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni, tentato dal diavolo» (Lc 4,1-2) per scegliere di essere un Messia pienamente solidale con la nostra umanità, segnata da tanti limiti e ferita dal peccato. Ecco perché anche noi vogliamo creare spazi di deserto dove mettere a fuoco chi siamo e dove stiamo andando. Ci regaliamo un’occasione per capire che «convertirsi significa non chiudersi nella ricerca del proprio successo, del proprio prestigio, della propria posizione, ma far sì che ogni giorno, nelle piccole cose, la verità, la fede in Dio e l’amore diventino la cosa più importante» (Benedetto XVI, mercoledì delle ceneri 2013).

Inizio
La pagina delle tentazioni di Gesù scritta da Luca ha il sapore di un racconto un po’ mitico e idealizzato. Questo serrato dialogo tra Gesù e il diavolo che si sfidano a colpi di versetti biblici appare forse distante dai nostri problemi quotidiani, dai modi con cui siamo esposto alla tentazione del male. È, dunque, necessario capire anzitutto il senso generale e profondo di questo strano vangelo. Sta scritto che Gesù rimase «quaranta giorni» nel deserto, «non mangiò nulla in quei giorni , ma quando furono terminati, ebbe fame» (4,2). Noi spesso pensiamo al digiuno come una specie di prova fine a se stessa, mentre il vangelo ci fa capire che si tratta di uno strumento in grado di condurci a conoscere quale fame profonda ci abita. Infatti, solo dopo quaranta giorni si manifesta nel cuore di Cristo quella velenosa ostilità tra bisogni e realtà che, per suggestione diabolica, diventa tentazione di autonomia. Ma era necessario che il Figlio di Dio fosse in questo provato, perché solo ciò che resiste dopo una messa in crisi può dirsi autentico. Quando, infatti, scopriamo il reale valore di una relazione? Solo nel momento in cui non è più scontata, ma deve rintracciare motivazioni per sussistere e, quindi, trasformarsi. È solo nella difficoltà che emerge la verità di ciò che siamo e di quello che stiamo facendo. La Quaresima dunque non è un tempo in cui, a denti stretti, tentiamo di offrire a Dio un po’ di sudore per dimostrargli che ci siamo e, soprattutto, che siamo bravi e forti. Vuole essere piuttosto un’occasione per avvicinarci al nostro limite e riconoscere in che modo ci siamo abituati a rapportarci a esso. Il Signore ha voluto sperimentare questo drammatico combattimento a cui ogni giorni siamo chiamati, e il vangelo ce lo rivela sotto forma di racconto.

Prima tentazione
Dice il diavolo a Gesù: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane» (4,3). La  prima tentazione è trasformare le cose in pane, cioè piegare la realtà ai morsi — talora rabbiosi — della nostra fame, dei nostri bisogni scoperti. Al di là del legittimo desiderio che ogni bisogno suscita, la tentazione si manifesta nella abitudine ad assolutizzare i  bisogni fino ad alterare la misura delle cose e delle persone che ci stanno accanto. Così gli amici, il lavoro, i genitori, i vestiti e l’apparire, i soldi che abbiamo o quelli che vorremmo avere, si tramutano in pericolosi idoli. Ma Gesù risponde al diavolo: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (4,4). Il Signore non condanna il bisogno di mangiare, rivendica piuttosto una fame più grande che dobbiamo ascoltare e risolvere: «Gesù ribatte che l’uomo vive anche di pane, ma non di solo pane: senza una risposta alla fame di verità, alla fame di Dio, l’uomo non si può salvare» (Benedetto XVI). La Quaresima non vuole introdurre pericolosi sospetti dentro i naturali bisogni che compongono il nostro vivere quotidiano, introducendo impossibili domande del tipo: mangio o non mangio? Mi soddisfo o non mi soddisfo? Mi voglio bene oppure no? Questo genere di dubbi nasce da un conflitto tra desiderio e realtà, che di fatto non esiste. La realtà è buona e sufficiente, sono invece i nostri appetiti che hanno bisogno di essere riconsiderati, perché (troppo) spesso ci sentiamo autorizzati a nutrirci male e disordinatamente alla mensa della storia, sognando quello che non c’è, opure tentando di accapararci quanto non ci è stato donato dal cielo. Per questo i gesti di mortificazione e di penitenza si possono solo intendere — e praticare — come tentativi di tornare alla verità di noi stessi. Il digiuno, accompagnato dalla preghiera e dall’elemosina, ci educa a non soddisfare sempre e subito i bisogni che avvertiamo, ma a riconoscere che dentro di noi riposa un altro bisogno più vero e profondo, che possiamo imparare a vivere. Il digiuno ci aiuta ad ascoltare tutta la fame che abita nel nostro cuore e non soltanto i suoi morsi più superficiali. Orienta il nostro desiderio verso un cibo più gustoso di quel pane strappato o mendicato che non riesce mai a saziare i nostri giorni.

Fine
«Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato» (Lc 4,13). La Quaresima è un tempo limitato, perché la prova della nostra umanità avviene entro  precisi confini. Non si soffre all’infinito e non si è messi indefinitamente in crisi dalla provvidenza di Dio. Anche questo è un segno del suo amore di Padre. Inoltre per noi cristiani qualsiasi deserto non è mai terra arida senz’acqua. Anche nei momenti più bui e solitari, sappiamo che «vicino» a noi è sempre la «Parola» di Dio, sulla «bocca» e nel «cuore» (Rm 10,8). Perché se con la bocca proclamiamo: «Gesù è il Signore!» e con il cuore crediamo che «Dio lo ha risuscitato dai morti» (10,9), saremo salvi. Il nostro volto, con la sua vita e la sua morte, rimarrà «al riparo dell’Altissimo e passerà la notte all’ombra dell’Onnipotente» (Salmo responsoriale).

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