COSÌ COME SIAMO

V Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Nelle ultime due domeniche le Scritture ci hanno segnalato una singolare anomalia. Dio ha tante belle cose da dirci, ma incontra seri ostacoli quando prova a comunicarcele. Pare che ne sappiamo già troppo — di noi e della vita — e che in fondo non ci vada poi così tanto di invertire la rotta. Diventiamo persino aggressivi quando ci viene annunciato che una grossa novità sta dietro l’angolo. Il vangelo di questa domenica spinge questo drammatico paradosso all’estremo. I racconti di vocazione di cui la liturgia è intesuta, sembrano dire che tutta questa nostra resistenza, per Dio, non costituisca un problema insormontabile, anzi sia l’imbarazzante, concreto punto di partenza per offrirci una vita da accogliere come vocazione. 

Notti vuote
«Simone» (Lc 5,4) e i suoi «soci» in affari di pesca — «Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo» (5,10) — non sono reduci da una felice esperienza. Hanno «faticato tutta la notte» e non hanno preso «nulla» (5,5), nemmeno un carpa o un cavedano con cui fare colazione. Ora lavano le retti, approfittando dei getti di acqua che si tuffano rigogliosi nel «lago di Gennèsaret» (5,1) dalle prti della sponda occidentale. Sono stanchi, delusi, forse anche arrabbiati. In quel mentre arriva Gesù, un maestro outsider che cerca di diffondere speranza a suon di parole. «La folla», scrive Luca, «gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio» (5,1). Inaspettatamente, il Maestro sente il bisogno di un luogo da cui poter predicare con più calma ed efficacia. Allora sale in una «barca, che era di Simone e lo pregò di scostarsi un poco da terra» (5,3). Pietro gli accorda l’uso dell’imbarcazione, e il Maestro «sedette e insegnava alla folla dalla barca» (5,3). Non sappiamo che cosa hanno pensato in quei momenti gli svertunati pescatori, ancora scottati da una brutta notte di pesca e costretti pure ad ascoltare un’omelia di prima mattina. Eppure l’affresco evangelico è sufficienti a ricordarci che, molto spesso, la voce di Dio ci raggiunge proprio a serbatoio vuoto. Mentre siamo sfiniti e vuoti, incavolati e soli. Alla fine delle nostri peggiori notti, quando fantasmi e incubi hanno saccheggiato la dispensa dei nostri sorrisi. 

Mai dire mai
Ma Dio piace non mettersi semplicemente accanto a noi, ma farci cambiare sguardo sulla realtà, regalandoci i suoi occhi. Ecco, infatti Gesù invitare Simore e ritrovare fiducia e osare di nuovo la fatica del viaggio: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca» (5,4). Simone, con tutta probabilità, è un po’ reticente davanti alla proposta. Il mestiere del pescatore lo conosce meglio lui del falegname di Nazaret, ormai diventato ricercato conferenziere dell’Altissimo. Vorrebbe declinare garbatamente l’invito, ma poi elegantemente accetta: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti» (5,5). Succede allora l’impossibile: «fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano» (5,6). E accade proprio così, ogni volta che diamo fiducia a quanto Dio riesce a dirci attraverso le mille mediazioni del quotidiano. Laddove noi stavamo singhiozzando per il timore di essere arrivati a un triste epilogo, scopriamo che la fantasia di Dio è già all’opera per offrirci nuovi sentieri di salvezza. Del resto — chissà perché lo dimentichiamo — Dio è creatore, sempre, in ogni istante. Per questo non dobbiamo mai dire “che è finita”, finché la vita ci scorre tra le mani.

Falsi problemi
A questo punto Simone esplicita quel senso di inadeguatezza che tutti avvertiamo quando siamo costretti a riconoscere — ancora una volta volta — che Dio esiste e che ci vuol bene. Tutte le letture ci confermano l’inevitabilità di questo profondo disagio. Pietro: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore» (5,8). Paolo: «(Cristo) apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1Cor 15,8-9). Isaia: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti» (Is 6,5). Per il Signore la distanza che esiste tra lui e noi non rappresenta un ostacolo. Gesù risponde a Pietro: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10). Isaia, dopo aver ricevuto la purificazione delle labbra, esclama: «Eccomi, manda me!» (Is 6,8). Paolo confessa: «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me» (1Cor 15,10). La più grande fatica che Dio deve compiere è proprio quella di convincerci che a lui andiamo bene così come siamo adesso. Non perfetti, puliti e equilibrati come il nostro orgoglio vorrebbe. «Alle nostre labbra impure e alle nostra fragili mani» il Signore affida «il compito di portare agli uomini l’annunzio del Vangelo» (cf Colletta). Noi peccatori, conosciuti e accolti da un Dio che vuole aver bisogno della nostra barca. La gente più idonea a raccontare la gratuità del suo amore. 

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