IMPARARE DAL FICO

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario — Anno B

In questa domenica siamo posti a confronto con due parole che, nel nostro tempo, destano più sospetto che desiderio: «per sempre» (Dn 12,3; Eb 10,12.14). Intrisi di scetticismo e rassegnati, collocati in uno scenario politico ed economico sempre più allarmante, scottati da esperienze negative personali, esitiamo a compiere scelte durevoli e solide. Preferiamo vivere alla giornata, senza troppi progetti, senza inutili formalismi. Il Signore Gesù ci regala una pianta di fico come definitivo maestro per smettere di credere più al rumore di un albero che cade che al silenzioso crescere di una foresta. 

Criceti
Ammettiamolo: la vita — volenti o nolenti — è un bel «sacrificio» (Eb 10,12). Cioè tende inevitabilmente a diventare una faticosa maratona, un affare di gigantesche dimensioni, una cosa sacra, appunto. Difatti, sebbene Dio sia l’artefice di tutto, i concreti amministratori del nostro cammino siamo noi, con la nostra libertà che valuta, decide e sceglie. In questa avventura tutti facciamo esperienza di come sia facile e quotidiano fallire il bersaglio, sciupando il tempo e le occasioni. Di fronte a questa noiosa evidenza, proviamo a spremere le nostre migliori energie, ad attivare le nostre forze più nobili. Eppure, sembriamo come criceti che si affannano sulla ruota: intrappolati in un moto rotatorio, prigionieri di un tentativo che non fa mai cambiare le cose fino in fondo. L’autore della lettera agli Ebrei così commenta il culto che si praticava in Israele fino alla venuta di Cristo: «Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati» (10,11). Così si configurava la fede che il Signore è venuto a perfezionare: un culto logoro e monotono, incapace di condurre veramente a destinazione il tragitto della vita umana. La nostra società — atea eppure molto religiosa perché votata a molti idoli — rientra perfettamente in questa descrizione: tanti (troppi) sacrifici, sempre in movimento e in tensione e, tutto sommato, mai sazi e contenti davvero. Sudati e affannati, come criceti che continuano a correre restando sempre fermi sullo stesso punto.

Crisi
Come mai, ieri e oggi, l’uomo incontra lo stesso problema religioso? Cosa ci manca? Le Scritture sembrano unanimi nell’indicare una risposta: un serio e sereno contatto con i tempi di «angoscia» (Dn 12,1) e di «tribolazione» (Mc 13,24) che si offrono e si soffrono in ogni percorso di vita. Sia il profeta Daniele che il Signore Gesù affrontano il delicato argomento della fine del mondo annunciandone tutta la drammaticità. Sarà un tempo di profonda inquietudine «come non c’era stata mai» (Dn 12,1), nel quale ogni riferimento verrà a mancare: «Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte» (Mc 13,24-25). Oggi noi sappiamo che queste parole sono vere anzitutto nel loro più immediato significato. Il mondo — ci assicura la scienza — ha avuto un’origine e un giorno finirà. Non viviamo, come si credeva un tempo, in uno scenario immutabile di cui noi siamo il centro astronomico. «Le stelle» non brillano «per sempre» (Dn 12,3), l’universo è in continua evoluzione e noi, minuscola e irrilevante periferia, siamo in evoluzione con esso. Ma queste parole descrivono anche un passaggio esistenziale che ciascuno di noi patisce nel corso della sua vita, quando tutti quei punti di riferimento che credevamo inamovibili improvvisamente saltano per aria, come i bottoni di una camicia. 

Fine
«Queste cose» — dice il Signore Gesù — devono «accadere» (Mc 13,29). La nostra vita ha bisogno di affrontare crisi profonde per entrare nello scenario delle cose definitive. Ma, proprio «in quel tempo sarà salvato» il nostro cuore, come assicura il profeta: «molti di quelli che dormono nella regione della polvere si risveglieranno» e «coloro che avranno indotti molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,3). Proprio quando tutto sembra finire, ecco l’opportunità di un nuovo e definitivo incontro con Dio: «allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria» (Mc 13,26). Il Maestro aggiunge anche una parabola, quella del fico: «Quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» (13,29). L’esempio è chiarissimo, la sua assimilazione vertiginosa. Quando tutto ciò che ci ha garantito stabilità — le cose che Dio ha creato e ci ha donato come assi cartesiani — vengono meno, noi dobbiamo imparare a credere che non siamo giunti al capolinea, ma a un punto di decollo. Quando la felicità e la stabilità ci sembrano lontane, ci viene garantita la possibilità di credere  che, in realtà, il Signore è vicino e le sue parole restano: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (13,31). 

La vita è splendidamente dura. A nessuno è risparmiato il passaggio per la crisi e la sofferenza. Ma attraverso questi momenti di disorientamento ci è donata l’opportunità di riordinare le priorità e, soprattutto, orientare il cuore verso Dio. Solo dopo questa necessaria tribolazione — sconvolti e lieti — possiamo pronunciare di nuovo le parole oggi proibite, quelle che dicono tutto il nostro destino e la nostra dignità: «per sempre». 

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