ASSOLUTA MONARCHIA

Solennità di Cristo Re dell’universo — Anno B

L’anno liturgico si conclude con una festa piuttosto singolare, dal sapore persino anacronistico: «Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo». Istituita poco meno di un secolo fa (1925), nel periodo storico in cui emergevano i totalitarismi ideologici, questa festa — almeno nella sua dicitura — risuona quasi sospetta al nostro orecchio moderno. Il suo nome sembra voler rispolverare antichi sogni di gloria, riaccendere inveterate nostalgie monarchiche. E invece no.

Non sembra
Anche perché — diciamolo pure — non sembra affatto che nell’universo ci sia davvero un Re, che risponde al nome del carpentiere di Nazaret: Gesù, il Cristo. Oggi più che mai, la storia sembra finita irrimediabilmente nelle mani dell’uomo, nella sua capacità di esercitare il «potere» e di inseguire continuamente la «gloria» (Dn 7,14) che viene da «questo mondo» (Gv 18,36). Il cristianesimo pare che non abbia saputo cambiare il mondo, anzi sembra quasi aver fallito in questa sua specifica missione. La logica di amore e di solidarietà del vangelo non ha saputo ancora trasformare la storia umana nel regno di Dio, un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace» (cf prefazio). Gli insegnamenti di Cristo non animano certo le agende politiche o i salotti televisivi che scandiscono il nostro tempo. Dov’è dunque questo «regno» che «non sarà mai distrutto» (Dn 7,14)? In cosa consiste questo «potere eterno che non finirà mai» (7,14)? 

Non sembrava
A dire il vero, nemmeno duemila anni fa la potenza e l’efficacia di questo regno erano facilmente visibili. Il vangelo ci fa ascoltare il drammatico dialogo tra Pilato, magistrato romano, e Gesù sedicente Messia. I giudei e i capi dei sacerdoti avevano consegnato lo scomodo rabbì alle autorità romane, non avendo il diritto di metterlo a morte (ius gladii). Pilato, incontrando Gesù nel pretorio lo interroga, dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?» (Gv 18,33). Una domanda incredula, quasi spontanea da parte di un uomo che esercita il giudizio per conto dell’impero romano. Pilato conosce bene la logica dei regni umani, poiché egli stesso ne è parte attiva. Sa quanto sia indispensabile il ricorso alla forza e al potere se si vuole regnare in mezzo ai popoli di questo mondo. Perciò resta basito di fronte all’inerme falegname diventato profeta di Dio, il quale replica: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?» (18,34). Domanda diretta, scomodissima, che interroga anche noi. Ci costringe a fare i conti con una regalità tutt’altro che apparente, con un modo di interpretare la vita e il suo significato agli antipodi delle nostre egoistiche misure: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36). Gesù Cristo è un altro tipo di re rispetto a quelli che abbiamo visto sfilare davanti ai nostri occhi nei libri di storia. Tutto diverso dai potenti che si contendono i voti dei cittadini ai giorni nostri. Per nulla simile ai miti della nostra triste società che seducono tutti senza offrire niente. Un altro re, difficile da vedere e da credere. Anche per Pilato: «Dunque tu sei re?» (18,37).

Eppure è
Risponde il Signore: «Tu lo dici: io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (18,37). Cristo è il re dell’universo perché la sua signoria sul mondo e sulla storia è fondata sulla «verità», categoria desueta e imbarazzante che quasi mai coincide con l’audience, la popolarità, il consenso globale. Il Signore Gesù è il re dell’universo perché con la sua vita ha testimoniato il senso della storia e dell’esistenza umana. Amandoci e liberandoci «dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 1,5), ci ha rivelato che il regno di Dio è fondato sulla legge della carità e che «servire è regnare» (cf. colletta). Noi ci ostiniamo a leggere la storia al contrario, mettendo i potenti e i forti in prima pagina e i piccoli nei titoli di coda. Dio invece non si stanca di costruire il suo regno al contrario, scegliendo le pietre che noi scartiamo e facendole diventare mattoni preziosi della sua eterna città. Confessare la regalità di Cristo significa anzitutto modificare lo sguardo che abbiamo su di noi e sugli altri. Quindi accettare che la sua vittoria sul peccato e sulla morte abbia «fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre» (1,6). Anche noi infatti siamo chiamati a esprimere quella regalità che abbiamo nel sangue, in quanto figli di Dio. Spesso la nostra vita resta in frantumi o avvolta dalla tristezza perché dimentichiamo il regno di cui facciamo parte, l’immensa dignità che possiamo esprimere mettendo il nostro tempo a servizio degli altri. C’è una «verità» iscritta nel libro della nostra vita che niente e nessuno può cancellare. Corrisponde al nostro essere stati creati ad immagine e somiglianza di un Dio che dona la sua vita e perciò è re di tutte le cose. Umilmente, anche noi possiamo imparare a indossare ogni giorno la nostra corona, accogliendo con cuore semplice le infinite occasioni di sprecare la nostra vita non per noi stessi, ma per gli altri. «Chiunque è dalla verità» ascolta «la voce» (Gv 18,37) di questa chiamata. 

Commenti