SOFFIO

Giovedì - XXV settimana del Tempo Ordinario

Entrambi, il tetràrca Erode e il sapiente Qoèlet, sembrano accomunati dalla stessa, umanissima esperienza: un certo sconcerto di fronte alla realtà, la percezione di un limite invalicabile oltre il quale non riescono ad arrivare né la nostra percezione, né il nostro linguaggio.

In quel tempo, il tetràrca Erode sentì parlare di tutti questi avvenimenti 
e non sapeva che cosa pensare [...] (Lc 9,7).

Da parte sua l’Ecclesiaste (קהלת) rimane sbalordito di fronte al velo di una realtà che, davanti al nostro umano sguardo, non può che sembrare un eterno e continuo ciclo di arrivi e partenze, dove non muta mai realmente lo scenario della natura e il corso della storia.

Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa.
Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce (Qo 1,4-5)

Per descrivere lo stato d’animo che questo spettacolo suscita nel cuore, il sapiente d’Israele ricorre a un’immagine divenuta celebre: «Soffio, assoluto soffio» — tradotta nella versione latina (e poi in quella italiana) senza una piena fedeltà all’originale ebraico: «Vanità delle vanità». La realtà è un soffio, vapore intangibile e inconsistente, sfuggente al nostro controllo e alle nostre pianificazioni. Si solleva, spontanea, la domanda:

Quale guadagno viene all’uomo per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? (1,3).

L’atteggiamento di Erode — che certo non si propone nella cronaca evangelica come modello di apertura al mistero di Dio — segnala una strada che tutti siamo invitati a percorrere. Il vangelo dice che pur non sapendo cosa pensare di Gesù, «cercava di vederlo» (Lc 9,9). L’immagine implacabile di una realtà dove i segni della presenza di Dio si mescolano a quelli della sua assenza, dove la monotonia e la ciclicità sembrano strappare la speranza che l’oggi possa essere nuovo e il domani migliore, l’unica arte che rimane al discepolo è quella di incuriosire il cuore e spalancare gli occhi. Sapere di non sapere — come dicevano gli antichi — è quella dotta ignoranza che ci educa al realismo, unica condizione per diventare persone spirituali e non cinici rassegnati. Per essere, serenamente, soffio tra i soffi.  

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