NULLA FUORI

XXII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Il lungo discorso sul pane di vita è terminato. Il vangelo di Giovanni riconsegna il testimone a quello di Marco che, attraverso una pagina densa e interessante, svela il nome della difficoltà di fede messa in evidenza dalla parola dura che il Maestro Gesù ci ha rivolto in questi giorni caldi d’estate. Si chiama cuore «impuro» (Mc 7,23) l’ostacolo che ci impedisce di entrare in sintonia profonda con Dio e la sua offerta d’amore. 

Tutto fuori
Da sempre l’uomo avverte il bisogno di pulirsi e purificarsi in certi momenti importanti della sua vita. Tra questi, evidentemente, rientra anche l’ambito del sacro, il tempo e lo spazio nei quali l’uomo si mette in relazione con il Dio vivente e invisibile. I «farisei» e gli «scribi» (7,1) avevano ereditato e tramandato una cospicua «tradizione» (7,3) di regole e precetti, utili a disciplinare con «saggezza» e «intelligenza» (Dt 4,6) il rapporto con il Signore. Tra queste c’erano anche le famose «abluzioni» delle mani e le «lavature» (Mc 7,4) degli oggetti. Potremmo ridicolizzare o banalizzare il senso di queste norme, ritenendoci ormai più evoluti dei nostri fratelli ebrei, oppure finalmente emancipati da questo sterile ritualismo religioso. Non ci sfugga però la memoria che anche la nostra esperienza cristiana lungo i secoli si è riempita di regole, norme e riti, con i quali la chiesa ha sempre cercato di comunicare l’amore di Cristo nella forma dei sacramenti e della liturgia. Oppure il fatto che la nostra stessa vita quotidiana è una liturgia colma di regole, abitudini e tradizioni che eseguiamo con meccanica fedeltà. I riti di purificazione sono un bisogno che l’uomo avverte a partire dalla coscienza di non essere adeguato ad entrare in relazione con Dio e con la sacralità della vita. E corrispondono pure ad un profondo bisogno di essere e di sentirsi belli, puliti, a posto. C’è tuttavia una insormontabile difficoltà nel raggiungere l’obiettivo. Qualsiasi regole di lavaggio osserviamo — siano esse antiche e collaudate formule religiose, o i più laici imperativi della società contemporanea — riusciamo soltanto a purificare l’involucro della nostra vita. Già i profeti denunciavano il disavanzo: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (7,6). 
Nulla fuori
Incapaci di purificarci da noi stessi, diventiamo facilmente «ipocriti» (7,6) e, conseguentemente, critici nei confronti di tutto ciò che ci circonda. Non riuscendo a sbiancare la nostra vita come vorremmo, diventiamo familiari con il pensiero che allora, quasi certamente, il problema è all’esterno. La nostra contemporaneità offre un patetico affresco di questa diffusa attitudine: sentirsi giusti e individuare negli altri e nella loro diversità l’errore e il torto. In mezzo a questa nebbia, si propone come un raggio di luce la parola del Signore Gesù: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma solo le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro» (7,14-15). La radice della nostra impurità va riconosciuta dentro di noi, e non fuori come ci piacerebbe credere. Quante volte pensiamo (e ripensiamo!) che se le circostanze della nostra vita fossero un po’ diverse, allora sì che saremmo finalmente felici, appagati... noi stessi. Se il marito, la moglie, i figli, il capo ufficio, il parroco, i confratelli — e chi più ne ha più ne metta — non fossero un tale disastro, senza dubbio saremmo tutti un po’ più carini e contenti. Frottole! dice il Maestro, pietose bugie che (ci) diciamo per riuscire a sopravvivere con quel bel tumore piantato in mezzo all’anima che si chiama cuore «impuro». Proprio da questo fondo della nostra anima — e solo da esso — «escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza» (7,21-22). Ciò che ci condanna non è ciò che ci succede, ma quello che il nostro cuore sceglie. Non sono quindi le condizioni esterne a rovinare la nostra vita, ma le intenzioni interne che definiscono la traiettoria delle nostre azioni. 

Dentro
Questo sguardo su noi stessi non vuole essere una parola di giudizio, ma un annuncio di liberazione. Infatti se accettiamo e riconosciamo che la tenebra è dentro di noi, allora Dio ci può salvare. Perché noi non siamo soltanto esseri radicalmente impuri, siamo soprattutto figli di Dio. Dentro di noi non abita solo la menzogna, ma più profondamente una  «parola di verità» che, attraverso il nostro battesimo, «è stata piantata» in noi e può portarci «alla salvezza» (Gc 1,21). Questa parola si è fatta carne ed è il nostro cibo, è il bene che Dio ci vuole, qualsiasi tonalità di nero il nostro cuore abbia dentro di sé. Dobbiamo imparare soltanto ad accoglierla «con docilità» (1,21) e lasciarla crescere. Cosa vuol dire? Che solo un altro può rendere puro il nostro cuore, non le nostre mani. È il Signore Gesù Cristo con la verità del suo amore per noi, per ogni uomo. Ecco perché dobbiamo abituarci a mangiare il suo corpo per avere in noi la vita. Ecco perché è stato così difficile ascoltare il suo duro discorso sul pane di vita. Semplicemente perché a noi pare davvero impossibile che Dio sia così dalla nostra parte da immergersi nel nostro cuore sporco per farlo diventare pulito. Ci sembra una in-credibile pazzia che Dio sia così a nostra disposizione da farsi nostro cibo. Che realmente esista qualcuno che ci ama perché ci siamo e non per come siamo. E che questo qualcuno sia Dio. Sembra impossibile, ma è vero. E nella misura in cui ci nutriamo di questa speranza, la purezza dentro di noi guadagna terreno. Smettiamo di vivere con affanno il tempo e le occasioni, perché impariamo ad accogliere tutto come un «dono perfetto» che viene «dall’alto», che discende «dal Padre» (Gc 1,17). Diventiamo puri perché veri, capaci di dire grazie. 

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