LA COMPAGNIA DEI NUMERI SECONDI

XXV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Il Signore riapre i canali della nostra capacità di comunicazione; ci restituisce l’ascolto e la parola (due domeniche fa). Ma noi non siamo capaci di accogliere docilmente la sua voce, perché pensiamo secondo gli uomini e non secondo Dio (domenica scorsa). Esiste un’abbondante distanza tra il nostro modo di ragionare e quello di Dio. I profeti dicevano che era simile a quella che separa il cielo e la terra, cioè infinita! 

Più su
Uno dei motivi per cui esiste questa distanza è già emerso nel confronto tra il Maestro e il primo discepolo della classe (Pietro): lo scandalo della croce, che per noi è un orribile inciampo, mentre per il Signore Gesù è solo un passaggio che il suo amore sa e vuole compiere prima di prendersi la libertà di risorgere. Noi al contrario, anziché lasciarci piegare dalla sofferenza — quando essa accade — siamo sempre concentrati a inseguire piedistalli e sogni di gloria. Così facevano i discepoli, mentre il Signore annunciava la sua passione, discutendo animatamente «tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34). Sebbene l’argomento sia abbastanza ridicolo ma familiare a ciascuno di noi, è davvero incredibile che i discepoli riescano a spenderci tempo, proprio mentre il Maestro sta dicendo tutt’altro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31). L’evangelista precisa il motivo della mancata sintonia tra Gesù e i suoi amici: «Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (9,32). In realtà è abbastanza singolare il riferimento a una mancata comprensione, data la semplicità (tragica) dell’annuncio fatto da Gesù. Il difetto di ascolto deriva infatti non dall’incapacità di capire il messaggio, ma da una preliminare indisponibilità ad accogliere altro rispetto ai propri desideri. Questa è sempre la prima, immensa difficoltà che dobbiamo affrontare quando ci mettiamo in ascolto, soprattutto di Dio e della sua parola: smontare i nostri progetti, rinunciare alle nostre (pre)comprensioni della realtà. Senza questa conversione — che certo somiglia a un rinnegamento — inutile è tentare di capire e praticare il pensiero di Dio. Perfettamente inutile, perché esso è «per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni» (Sap 2,12).

Più giù
Il Signore Gesù ama, però, le sfide impossibili. Non subito, ma appena entrato in casa con i suoi discepoli domanda loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?» (Mc 9,33). Essi tacevano e, probabilmente, il Maestro sapeva bene il perché, come il vangelo stesso puntualizza. Tuttavia la domanda era importante, perché noi non riusciamo a prendere le distanze dal nostro io, sempre in fuga verso qualche idolo, se non siamo disposti a riconoscere quali pensieri abitano e dominano il nostro cuore. In questo cuore, Gesù getta una chiamata a conversione: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Solo così si interpreta correttamente la vita e, di conseguenza, la si vive bene: assumendola come un servizio e non come un’occasione per primeggiare. Fino a quando non ci arrendiamo a questa meravigliosa chiamata continueremo a porci sopra o contro gli altri, nel tentativo di fuggire l’incontro con la debolezza che ci spaventa. Ma, così vivendo, si guasta tutto: il coniuge, i figli, il lavoro, l’amicizia, il proprio corpo, la realtà, i beni del mondo; perché ogni cosa assume il suo valore solo in funzione del nostro ego impaurito e bramoso di riscatto. Finché non riconosciamo che la nostra principale paura è di essere secondi, cioè ultimi, avremo una vita agitata e, tutto sommato, solitaria. Infatti «dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è diordine e ogni sorta di cattive azioni» (Gc 3,16).

Più piccoli
«E preso un bambino, Gesù lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: ‘Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me’» (Mc 9,36-37). Gesù finisce la predica e regala ai discepoli un gesto, più forte e incisivo di mille parole. Avvolgendo di attenzione e di affetto un bambino, i discepoli sono costretti a guardare in faccia il cuore di tutte le loro paure: essere piccoli, deboli, bisognosi. In questo abbraccio c’è l’indicazione di un’altra strada, insieme alla rivelazione del nostro problema. Abbiamo paura di accettare la nostra irriducibile piccolezza, quella parte di noi (e degli altri) che non rientra in alcun progetto di umana grandezza. Questo rapporto imbarazzato con il limite è la fonte dei nostri deliri di potenza, la tensione negativa che arma di aggressività le nostre mani, che ci spinge a sollevare la nostra piccola vita sulle punte dei piedi in attesa di un riconoscimento, di un dignitoso riscontro. E invece è tutto più semplice. I limiti — tanti, ovunque — non sono difetti da eliminare, ma luoghi in cui poter esercitare l’amore che abbraccia e che si lascia abbracciare. Se siamo disposti a rinunciare — anzi, a rinnegare — la solitudine dei numeri primi, possiamo finalmente sperimentare la compagnia dei numeri secondi, la gioia di chi ha tutto da ricevere, perché non ha più nulla da conquistare. 

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