RIALZARSI

XIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B


La drammatica esperienza del profeta Elia sembra capace di ridestare la nostra attenzione per farci ricominciare a fiutare il «soave odore» (Ef 5,2) del lungo discorso di Gesù sul pane di vita, che sta scandendo il ritmo di queste domeniche estive.

Sfogarsi
Dopo aver dato pieno sfogo al desiderio di uccidere tutti i falsi profeti di Baal sul monte Carmelo, l’ardente profeta di Dio è subito pervaso dal desiderio di morire: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). Una personalità certo inquieta quella di Elia, sempre bisognosa di condurre le cose all’estremo, piuttosto che accogliere la realtà — quasi mai dipinta a tinte forti — come unico peso da portare. In questo stato di profonda angoscia, il Signore lo raggiunge e, per ben due volte, lo nutre con pane e acqua, per ridargli forza e riaprire il suo cuore alla speranza: «Alzati, mangia!» (19,5). Meno facili da convincere ad accogliere il «pane disceso dal cielo» (Gv 6,41) e il suo sconcertante significato sono invece i Giudei, che si mettono a mormorare dopo le parole del Signore Gesù, lasciandosi troppo condizionare da ciò che di lui ritengono di sapere già: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (6,42).

Fermarsi
È sempre molto forte e radicata la tentazione di fermarci lungo la via della conoscenza di noi stessi davanti a Dio. Per questo il Signore anziché entrare in dialogo con le nostre inconsistenti obiezioni, preferisce rilanciare il senso del suo discorso, facendoci respirare il desiderio di una vita all’altezza di noi stessi e a misura del nostro cuore: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (6,51). L’atteggiamento di rassegnazione di Elia e quello di mal celata indifferenza dei Giudei potrebbero essere le figure delle ordinarie malattie che affliggono il nostro modo di celebrare il dono dell’eucaristia. Appropriato e puntuale risulta allora il monito dell’apostolo Paolo: «non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30). 

Rinfrancarsi
Ben altra intenzione che il biasimo è però il senso di questa ricca liturgia domenicale, a noi offerta per rialzarci da qualsiasi tenebra possa abitare dentro di noi: «asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (4,31). L’esperienza di Elia e il discorso di Gesù rammentano al nostro cuore, non di rado inutilmente angosciato, che il cielo ha riservato a noi un cibo affinché possiamo compiere quel cammino che a noi pare sempre «troppo lungo» (1Re 19,7), per giungere fino al prossimo incontro con la verità di Dio e con la nostra. Un cibo che vuole e può renderci capaci di interpretare la vita come dono e servizio, anche nei suoi passaggi più oscuri e dolorosi. Un cibo in grado di farci diventare «imitatori di Dio», soprattutto nello spirito di servizio, e di trasformarci — con estrema naturalezza — in fratelli e sorelle «benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi» (Ef 4,32). Anzi, potremmo addirittura definire la stessa eucaristia quel lungo discorso con cui Dio non si stanca di illuminare ogni residua tristezza o reticenza possiamo avere davanti all’annuncio di una vita piena, eterna perché sigillata dall’amore come atto di piena donazione e completa libertà.

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