PAROLE DURE

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Arriviamo, finalmente, al drammatico epilogo del discorso sul pane di vita. Un capitolo lungo e difficile del vangelo di Giovanni, che ci ha accompagnato in questo periodo estivo. Forse è utile un breve riassunto. Gesù ha compiuto il segno dei pani e dei pesci; la folla ha frainteso: ecco, finalmente un Dio che ci risolve i problemi. Gesù scappa, e quando viene raggiunto dalla gente che lo insegue, inizia una discussione sul significato del miracolo. Il dialogo è vivo, a tratti molto acceso, fino alla solenne dichiarazione: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). 
Insopportabile
Molti dei discepoli, dopo aver ascoltato questa proclamazione, sbottano: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (6,60). Forse non conviene biasimare troppo il loro sfogo, ma capirne il senso. Infatti è proprio duro quanto Gesù ha detto in questo lungo discorso riguardo il pane di vita. Mentre noi, come bambini, vorremmo sempre avere la pancia piena e i desideri soddisfatti, il Signore ci propone di diventare cibo, perché egli stesso è cibo. A noi sembra che ci manchi sempre qualcosa, e così giustifichiamo tutti i nostri egoismi e le abituali aggressività che serbiamo nel cuore. Attraverso la condivisione di pochi pani e pesci, il Signore ha invece voluto ricordarci che le cose sono un po’ diverse. In realtà, non ci manca nulla, se non la capacità di condividere la vita e i suoi doni. Esattamente come fa Dio che, anziché riempirsi la pancia all’infinito, si dona e si offre, come pane. Si tratta di uno stile di vita che non conosce limiti. Una vita eterna, perché fondata sulla logica dell’amore, che non si esaurisce proprio perché si effonde. Ammettiamolo: è un discorso davvero insopportabile! Abbiamo mille problemi, il mondo è una giostra impazzita, il pianeta su cui abitiamo tende al collasso. E Dio che fa? Anziché dare a tutti una bella strigliata, ci propone di imboccare la strada della solidarietà, della condivisione, della tenerezza. Anziché cambiare con forza le cose, ci spiega che il mondo lo possiamo modificare noi con la logica del vangelo. È proprio un discorso duro, perché troppo molle. Manca di vigore, di polso, di apparente concretezza. Insopportabile davvero.
Apostrofàti
Gesù, dopo aver ascoltato lo sconcerto dei discepoli, rincara la dose. «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dove era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono» (6,61-64). Gesù dice: sì, avete ragione; è molto impegnativo quanto vi ho detto, una proposta davvero forte. Ma il problema è un altro: voi state rimanendo su un piano molto umano e prudente. Continuate a misurare con il metro della ragione le mie parole. Mi osservate a distanza, anziché coinvolgervi con me. Insomma, non avete fiducia in me. Touché! Forse il discorso di Gesù è davvero duro, ma, dobbiamo ammettere, duro è anche il nostro cuore di fronte a lui. Molta della nostra fede è apparenza o abitudine, più che realtà. Lo possiamo constatare facilmente verificando quanto, concretamente, stiamo davvero giocando la nostra vita sullo scandalo del vangelo, quanto ci stiamo coinvolgendo nella missione della chiesa, quanto le nostre scelte e la nostra vita di tutti i giorni manifestano la logica paradossale del regno dei cieli. Forse il discorso di Gesù ci appare duro, semplicemente perché la nostra fede è molle. Molle come un fico. Andiamo a Messa, diciamo le preghiere, cerchiamo di aderire ad una morale più perché siamo abituati a farlo che non perché ne siamo realmente convinti. Le parole ruvide del Maestro ci ricordano che essere suoi discepoli non si può accontentare di una mezza misura. Dio non ha alcuno  problema con le chiese mezze vuote, ma detesta le persone solo per metà convinte di ciò che fanno. È disposto a perderci, piuttosto che averci come mezze persone. Infatti «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (6,66).

Interrogàti
Lascia senza fiato la libertà del Maestro, quando poi si rivolge ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?» (6,67). Gesù non supplica il gruppo dei discepoli più intimi di rimanere. Resta duro e splendido anche nei loro confronti, perché non è schiavo del consenso, del bisogno di essere approvato e confermati dagli altri. Il suo cuore resta fedele alla missione di rivelare il volto amorevole del Padre. Meravigliosa la risposta di Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (6,68-69). Viviamo certamente in tempi difficili. La chiesa sembra essere in crisi, le comunità cristiane stanche, le posizioni del Magistero talvolta troppo astratte e poco convincenti, la morale poco praticata. Chiunque stia giocando un po’ della sua vita nel gregge dei credenti è attraversato da una certa sfiducia. La parola dura del vangelo che abbiamo ascoltato in queste settimane ha forse il compito di irrobustire la nostra tenue speranza. Il tempo che viviamo è un tempo drammatico, pieno di male e di violenza, ma anche ricco di importanti trasformazioni. In questo tempo la chiesa sembra essere chiamata a vivere una grande purificazione, utile alla sua autenticità e alla salvezza del mondo. 

A noi, piccoli e smarriti discepoli del Maestro, oggi rimbalza una vertiginosa domanda: «Volete andarvene anche voi?». Non si tratta di un ricatto, ma di una sfacciata proposta. Un invito ad essere cristiani proprio quando non è più scontato esserlo (ammesso e non concesso che sia mai potuto esserlo!). Rimanere discepoli di Cristo, partecipare alla missione della sua chiesa, è una scelta che richiede fedeltà e dedizione. Come Israele nella terra promessa, colmo della memoria dei prodigi del Signore, ma circondato da innumerevoli dèi stranieri, anche noi siamo chiamati a scegliere «chi servire» (Gs 24,15). Le scelte più vere sono quelle che possiamo compiere quando ci sono alternative possibili. Come accade a noi, oggi.

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