XI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Ez 17,22-24 / Sal 91 / 2Cor 5,6-10 / Mc 4,26-34

SPONTANEAMENTE


Concluse le grandi solennità, che ogni anno fanno da corollario al mistero pasquale, le letture di questa domenica ci invitano a guardare la semplice forza della natura, per avere un’immagine di come il regno di Dio si fa strada nel mondo e nella storia. Per non dimenticare che essere testimoni del Risorto, significa sempre restare al di qua dell’umano, con le sue leggi e i suoi ritmi. Che essere cristiani vuol dire entrare nella vita divina gradualmente, anzi «spontaneamente».

Alberi secchi
La discendenza di Davide è ormai come un albero reciso, quando Ezechiele si alza per rivolgere al popolo parole di speranza: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà» (Ez 17,22,23). Il popolo esiliato in Babilonia non ha più terra, tempio, stabilità. Della storia gloriosa di Israele non rimane che un ceppo ormai sterile, delle promesse di Dio solo un pallido ricordo. Proprio in questo momento, il Signore sceglie di dare voce al suo profeta, per ricordare al popolo che la sua fedeltà non viene mai meno, ma si distende «lungo la notte» (salmo responsoriale). Anche a noi, in questo tempo difficile – dove la crisi è ora economica, ora geologica, ora etica – avvertiamo il bisogno di una parola che ci tolga dalle illusioni e ci indichi una speranza viva e vera. Sempre la profezia sa leggere la storia alla luce della fedeltà di Dio, rimette le foglie sui rami dei nostri alberi rinsecchiti, anche nei momenti più oscuri e difficili. 

Senza sapere
Il Signore Gesù attinge parole ed esempi dallo stesso immaginario usato dai profeti. Per spiegare la paradossale logica del regno di Dio, che si propone senza imporsi, che cambia tutto senza annullare la libertà della storia, il Maestro guarda in basso, per terra: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga» (Mc 4,26-28). Indugiando in una meticolosa descrizione dei passaggi con cui un seme si trasforma in una pianta, Gesù vuole focalizzare l’attenzione su un avverbio che scardina ogni moralismo e distrugge ogni volontarismo: «spontaneamente», che nella lingua greca risuona ancora più divino: «automaticamente» (4,28). Nessuno è capace di osservare e registrare i movimenti della natura, impercettibili alla nostra macchina da presa. Eppure la natura si muove, si gonfia e si affloscia, vive continuamente i suoi ritmi circolari di morte e rinascita. Spontaneamente, appunto. Così è anche la vita eterna in noi. Il suo sviluppo non sta nelle nostre mani, neppure nelle nostre misurazioni. La vita divina in noi procede secondo sue logiche interne. Possiede in sé la capacità di dilatarsi, fino a divenire un dono per sempre. Quante volte, purtroppo, restiamo concentrati sui risultati che non produciamo, sui traguardi che non riusciamo a raggiungere, sulle maturazioni che – nonostante preghiere e agire retto – stentano ad arrivare. Ma noi non dobbiamo preoccuparci di far crescere il seme della vita. A noi spetta un lavoro più piccolo e, tutto sommato, stimolante: assicurare alla nostra terra i semi buoni, le parole di verità che Dio ci dona. 

Senza giudicare
Qui forse sta il problema, dal momento che il vangelo di Dio è una sapienza povera, che muove i nostri passi non nella direzione del benessere o dell’autorealizzazione, ma della vita piena nell’amore. Per questo siamo continuamente tentati di inghiottire semi grandi e appariscenti, che ci seducono il cuore, anziché accogliere «con docilità la parola che è stata piantata in voi e può portarvi a salvezza» (Gc 1,21). Oppure ci illudiamo di poter interrare piante già maturate altrove, per altre vie e, soprattutto, grazie ad altre volontà. Perché, in fondo, giudichiamo arida la nostra terra e poveri i semi che vi cadono dal cielo. Il Signore Gesù ci costringe a infilare gli occhiali delle Beatitudini e a sospendere ogni facile giudizio: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quanto viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (4,30-32). Certo, è molto piccolo il seme che il cielo offre giorno per giorno alla nostra terra. È il piccolo passo quotidiano. Eppure è sufficiente a vivere bene, e a vivere per sempre. Come figli di Dio in questo mondo.

Commenti