V Domenica del Tempo di Pasqua – Anno B

At 9,26-31 / Sal 21 / 1Gv 3,18-24 / Gv 15,1-1

PORTARE FRUTTO


Non solo dietro, come le pecore fanno col pastore, ma anche dentro, come sono i tralci nei confronti della vite. In questo modo si approfondisce la liturgia di domenica scorsa del buon pastore, attraverso l’allegoria della «vera vite» (Gv 15,1), che il Maestro Gesù utilizza per parlare ai suoi discepoli ormai prossimo alla sua passione. È un’immagine splendida, potente e semplice, che ci fa riflettere su quanto grande sia il legame che unisce la nostra vita a quella di Dio.

Tagliare
Se è vero che l’amore di Dio, con cui siamo stati creati e salvati, è un formidabile legame che strappa la nostra vita da qualsiasi paura, ci sono alcune radicali conseguenze che dobbiamo riconoscere e accettare. Il Maestro le dichiara: «Ogni tralcio che in me non porta frutto (il Padre mio) lo taglia» (15,2). Dobbiamo ammettere che è sempre molto difficile accogliere i tagli della vita. Reagiamo subito malissimo. Eppure non sempre avremmo ragioni per lamentarci, dal momento che molte (troppe?) cose nella nostra vita sono rami secchi che, da tempo, non danno alcun frutto, binari morti che non ci portano da nessuna parte. La parola ruvida del vangelo ci costringe a valutare le cose non per i loro presupposti, ma per le loro conseguenze. Non portare frutto significa non portare il bene. Ci sono interi settori della nostra esistenza che non portano alcun bene, anzi sono forieri di male e ingiustizia. Il Signore Gesù ci propone una lettura molto seria della nostra storia, ricordandoci che esiste una provvidenza in base alla quale ciò che non porta frutto prima o poi è destinato a morire. Tante volte ci ostiniamo a mantenere cattive abitudini e a giustificare annosi vizi, pensando che non ci sarà mai il momento della verità. E invece, fortunatamente, giunge sempre il tempo in cui nella vita bisogna tirare una bella riga e fare una somma. Perché la nostra vita è  anche la somma delle nostre azioni.

Potare
«Ogni tralcio — continua il Maestro — che porta frutto, (il Padre) lo pota perché porti più frutto» (15,2). Conosciamo questa legge naturale: gli alberi, i capelli, molte cose si rafforzano proprio quando vengono tagliate. Eppure, se siamo noi gli oggetti di queste indispensabili falciature non capiamo più nulla e ne soffriamo terribilmente. Smettiamo di pensarci come tralci innestati sulla vite di Dio, non ricordiamo più di essere discepoli chiamati a portare la croce dell’amore sulle spalle, ignoriamo la missione che si sta compiendo nei nostri giorni, soprattutto attraverso le prove e le sofferenze. Il vangelo ci ricorda che nei momenti in cui ci sentiamo improvvisamente feriti e mutilati si potrebbe nascondere proprio la mano di Dio, sapiente «agricoltore» (15,1) che sa come condurre il suo campo a portare il maggior e il miglior frutto possibile. Il senso di alcune sofferenze che viviamo non è dovuto al nostro peccato — neanche a quello altrui — ma semplicemente alla sapienza di Dio che sa come renderci tralci fruttuosi. Molte volte a noi basterebbe restare là dove siamo arrivati, rimanere quello che siamo. Esiste in noi un’atavica tendenza a bloccare il meraviglioso processo di umanizzazione a cui la vita continuamente ci invita. Ma il Signore sa bene quanto grandi, pesanti e profumati possano essere i grappoli d’uva sui nostri rami. Per questo ci pota, in modo incruento, come Gesù spiega: «Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato» (15,3). Ecco la grande e temibile forbice con cui il Signore ci pota: una parola, capace di purificarci da altre parole che sempre ci abitano ma non sono secondo la verità. 

Rimanere
Come accogliere allora questa parola? Cosa fare? Niente, cioè rimanere. Stare fermi. Senza muoversi, senza sfuggire alla fatica dell’ascolto. Rimanendo fedeli alle parole di vita che ci stanno plasmando, lasciando che la linfa di Dio entri in noi e ci trasformi. Il Maestro Gesù è estremamente chiaro su questo punto: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (15,4). Rimanere è scelta matura e difficile, soprattutto nella temperie irresponsabile e frenetica dei nostri giorni, dove il maggior valore è assegnato a chi più si muove e produce. Rimanere, invece, è un atteggiamento apparentemente passivo e infruttuoso, aggettivi intollerabili nella società dei consumi. Per questo risuonano come una grande sfida le parole del Maestro: «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano» (15,6). La verità di queste parole non si manifesta immediatamente. Quando ci stacchiamo da Dio, esteriormente può sembrare che stiamo bene, che scoppiamo di salute. Gli idoli che coltiviamo continuano a decorare il nostro edificio: soldi, benessere, viaggi, gratificazioni, ecc. Ma dentro siamo già morti e incapaci di compiere veri atti d’amore. Lapidarie le parole di san Giovanni: «Non amate a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1Gv 3,18). Se invece rimaniamo uniti a Dio, ci è assicurata una meravigliosa eredità: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). Quando la linfa di Dio scorre dentro di noi, diventiamo realmente suoi consanguinei e il il suo Spirito ci spinge a fare scelte belle e coraggiose: «In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). Se rimaniamo uniti al Figlio e, attraverso di lui al Padre, allora diventiamo «discepoli» (Gv 15,8), uomini disposti ad imparare e a camminare ogni giorno. Le uniche persone che con impavida mitezza non cessano di pensare che la storia del mondo possa trasformarsi, giorno per giorno, in un cammino di giustizia. In un regno di pace e di amore. 

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