Pasqua di risurrezione


At 10,34.37-43 / Sal 117 / Col 3,1-4 / Mc 16,1-7

LA PAURA LIBERATA


I giorni nel deserto della nostra umanità sono finiti: è la Pasqua del Signore! Se abbiamo provato a vivere il tempo di quaresima con un minimo di sincerità, ci saremo accorti che qualcosa non va. Non tanto nella nostra società, sempre più in crisi e in ansia. Non solo perché ci sono le malattie, le cellule deperiscono, perché ogni giorno si soffre e si muore. Qualcosa non va dentro di noi, perché non sappiamo vivere bene, amare, accogliere la gioia e la fatica dei giorni che scorrono. Siamo peccatori, stupende creature di Dio, capaci di fallire gli obiettivi più grandi della vita, rimanendo però impeccabili nei dettagli. 

La memoria della passione e morte del Signore ci ha ricordato che la nostra umanità, in fondo, non è diversa da quella dei primi testimoni di Cristo. Anch’essi, affascinati dalla sua parola, si sono scoperti incapaci di corrispondere alla libertà del vangelo. Hanno tradito, rinnegato. Sono fuggiti. Il Signore Gesù li conosceva bene, sapeva di che fragile pasta erano fatti. E, per questo, ha voluto amarli fino in fondo. Fino alla fine. Fino alla morte. Anzi, fino alla risurrezione. La pasqua di Cristo si fonda su un minuscolo segno di speranza, un sepolcro vuoto. La sua forza è però quella di un terremoto. Il vangelo ce la racconta. 



Qui

Appena cessato il riposo del sabato, le donne si precipitano al sepolcro per ungere il corpo dell’amato Maestro. Comprano «oli aromatici» (Mc 16,1), si alzano «di buon mattino», «al levar del sole» (16,2). Un’unica preoccupazione sembra agitare il loro cuore e animare i loro discorsi: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall’ingresso del sepolcro?» (16,3). Conoscono bene la morte e il suo irreversibile destino. Chissà quante volte hanno visto la storia arrestarsi davanti alle pietre che gli uomini — i maschi — mettono sopra le cose ormai sconfitte e defunte. Ma questa volte, come altre volte, un’intuizione profonda del cuore dice loro di non smettere di sperare, di essere donne — femmine — capaci di custodire la vita che verrà alla luce. Anche noi conosciamo il potere della morte. Ne abbiamo esperienza ogni volta che non troviamo più né porte né maniglie per rientrare nella vita, per accedere ai rapporti incrinati, per risanare le ferite ricevute o inferte, per accogliere od offrire il perdono. 


Non qui
Giunte al sepolcro le donne sono costrette a riconoscere che la loro preoccupazione è infondata: il sepolcro è aperto, «la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande» (16,4). Inoltre non è abitato da un cadavere, ma da un giovane vestito di luce e di gioia. L’unica certezza — la morte — è improvvisamente scippata dalle loro mani. Il primo indizio della risurrezione bussa alla porta del loro cuore che subito da in tilt. Scrive Marco: «ed ebbero paura» (16,5). La paura più clamorosa non è infatti quella che sperimentiamo di fronte al male e al dolore, ma quella che proviamo quando la vita ci urta addosso e, senza preavviso, ci annuncia che possiamo essere felici. Il giovane messaggero fuga ogni sospetto che l’apparenza non sia realtà: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”» (16,6-7). Il primo annuncio pasquale sta tutto in queste parole. Contrariamente alle nostre aspettative, Dio non è apparso come Cristo glorioso e potente, ma come crocifisso povero e sconfitto. Per amore. Solo per amore. Questo modo di vivere, che a noi spaventa terribilmente, non rimane prigioniero della morte. Risorge. Nella carne di Dio ci è svelato il senso e il destino pure della nostra carne umana. Siamo nati e chiamati per amare tanto, per amare sempre. La paura che ciò possa costarci caro non regge più. La morte è sconfitta, ingoiata per sempre dalla forza della misericordia. Nessuna prova scientifica, nessuna evidenza certa. Solo un segno iniziale — il sepolcro vuoto — e poi tanti segni successivi — i testimoni del Risorto, i santi — che ci tracciano una strada. Così da poter essere veramente liberi di prendere la nostra croce, per fare anche della nostra vita un disegno d’amore. 

Altrove
Curiosamente la liturgia omette l’ultimo versetto del racconto, problematico e bellissimo: «Esse uscirono e fuggirono dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente e nessuno, perché erano impaurite» (16,8). È una finale scomoda, politicamente scorretta, quasi imbarazzante, che già nell’antichità ha spinto un  autore a lasciarsi ispirare da Dio un diverso epilogo, la cosiddetta «finale canonica» (16,9-20). Accolta dalla chiesa come testo ispirato, questa chiusura accomodante regala al secondo vangelo un lieto fine, con un florilegio di aneddoti attinti dagli altri vangeli. Marco invece si era fermato su altre note, aveva voluto lasciare in sospeso il suo libro. Non gli era parso necessario chiosare o risolvere l’unica reazione possibile di fronte all’annuncio della Pasqua di Cristo: la paura liberata. Non più quella di vivere e — un giorno — morire. Ma quella di poter — finalmente — dare la vita. Per amore. Solo per amore. 

Commenti

Anonimo ha detto…
sono d'accordo con Antonella ma sarebbe stato più bello leggere qualche riflessione...
fra Roberto ha detto…
Hai ragione!
Torno subito...