II Domenica - Tempo di Quaresima - Anno B

At 4,32-35 / Sal 117 / 1Gv 5,1-6 / Gv 20,19-31

FUORI DAL COMUNE


Nella domenica in cui si conclude la celebrazione dell’unico «giorno che ha fatto il Signore» (Sal 117), la liturgia insiste su un punto di capitale importanza. Accogliere la «testimonianza della risurrezione del Signore Gesù» (At 4,33) significa credere che «Gesù è il Cristo» (1Gv 5,1; Gv 20,31) e, nel suo nome, abbracciare con estrema naturalezza le forme di un’esistenza rinnovata secondo lo spirito del vangelo, dove gli altri sono fratelli e i beni di questo mondo uno strumento per stringere con loro concreti vincoli di amore e comunione. 

Concepimento
Lo sottolinea l’evangelista Luca nella prima lettura, presentando il volto della prima comunità cristiana: «Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano capi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,34-35). Ma questa splendida armonia, in cui diventa memorabile l’esperienza di avere «un cuore solo e un’anima sola» (4,32) con gli altri, non impone un’uniformità che confonde o, addirittura, annulla i percorsi individuali dentro cui si gioca l’avventura della «nostra fede» (1Gv 5,4) nell’unico Signore. Ne è emblematica testimonianza la vicenda dell’apostolo Tommaso che, puntualmente, ogni anno caratterizza la domenica in albis, così definita in ricordo del giorno in cui coloro che nella notte pasquale erano stati battezzati deponevano le vesti bianche per iniziare a rivestirsi di Cristo a partire dalla propria fisionomia e dalla propria storia. 

Gestazione
Mentre i discepoli vivono la prima, straordinaria esperienza di «pace» (Gv 20,19.21) e di risurrezione del cuore dopo la passione del loro Maestro, Tommaso sceglie di dare ascolto alle proprie irrisolte domande, piuttosto che prestare immediato credito alle risposte dei fratelli: «Abbiamo visto il Signore!» (Gv 20,25). Questa scelta di temporaneo isolamento non ha l’individualismo come epilogo, ma si traduce nella possibilità di vivere un incontro con il Risorto dopo aver affinato i sensi interiori attraverso il rispetto e l’ascolto del proprio dolore. È lo stesso Signore a legittimare questa esperienza: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco», e a indicarla come condizione di accesso a una fede più libera e responsabile: «E non essere incredulo, ma credente!» (20,27). Se non vuole tradursi in un pericoloso processo di omologazione, la comunione fraterna richiesta dal vangelo deve accordare tempo e libertà di camminare «a ciascuno secondo il suo bisogno» (At 4,35), affinché il germe di una vita nuova possa svilupparsi pienamente. 

Parto
Questo doloroso travaglio, che richiede la disponibilità a restare talvolta in disparte per ultimare la presa di coscienza di quello che la realtà ci sta dando e negando, può diventare il preludio di una necessaria riappropriazione della fede: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Otto giorni dopo la Pasqua, il mistero di Cristo morto e risorto chiede anche a noi di poter diventare esperienza personale, sofferto itinerario dalla tristezza alla gioia. Solo una fede nel vangelo ‘fuori dal comune’ — cioè cosciente e libera — può plasmare comunità cristiane in grado di mettere «tutto» in «comune» (At 4,32) e di manifestare «l’amore di Dio», l’unico segno della risurrezione che «vince il mondo» (1Gv 5,4).

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