IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Dt 18,15-20 / Sal 94 / 1Cor 7,32-35 / Mc 1,21-28

AUTORITÀ



Dopo aver esortato con calore e radicalità i fedeli di Corinto, l’apostolo Paolo questa domenica si fa più dolce arrivando quasi a scusarsi con i suoi fratelli nella fede: «Non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni» (1Cor 7,35). Oggi le Scritture ci costringono ad affrontare un tema difficile, quello dell’autorità. Proprio in questi termini viene descritto e riconosciuto il modo di parlare e di insegnare del Maestro Gesù: «come uno che ha autorità» (Mc 1,22). Il significato di  autorità, secondo l’etimologia latina, corrisponde a ‘accrescere’, ‘aumentare’. L’etimologia greca è ancora più interessante: exousia significa avere un'esistenza (un essere) che proviene da fuori, da altro rispetto a sé. Gesù — sembra dire il vangelo — era un uomo che mostrava di avere autorità, cioè era una persona cresciuta (bene) e capace di far crescere gli altri.

Persi
Purtroppo, avvertiamo tutti un’istintiva antipatia verso l’idea che un’autorità, esterna al nostro modo di sentire, si possa permettere di giudicare e orientare la nostra vita. Avvertiamo questa intrusione come illegittima, una violazione di privacy, un «laccio» e non un sostegno alla nostra libertà per il nostro «bene» (1Cor 7,35). Strano, perché il bisogno di avere una guida autorevole per orientare il nostro cammino è antico quanto il mondo. Già Israele sentiva il bisogno di ricevere guide e profeti per essere introdotto nella terra della vita. Il Signore concesse sempre questo dono, ma non trascurò di segnalare anche un pericolo: «Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire» (Dt 18,20). Forse è per questo siamo diventati allergici a chi si propone come autorevole maestro e invece non lo è. Anzi, nel secolo scorso questo rigetto di ogni autorità è diventato un passaggio culturale, in virtù del quale siamo diventati una generazione orfana e smarrita. Siamo infatti liberi, indipendenti, spontanei e sfacciati. Ma siamo anche senza bussola, perplessi, confusi. Non abbiamo più riferimenti. Giochiamo i nostri giorni come una partita di calcio senza arbitro, li usiamo come un elettrodomestico senza foglietto di istruzioni, navighiamo dove ci pare, ma dove non sappiamo. 

Ammestrati
«Sei venuto a rovinarci?» (Mc 1,24), grida «un uomo posseduto da uno spirito impuro» (1,23) al Maestro Gesù che ha appena finito di insegnare con autorità nella sinagoga. In mezzo a tutta questa confusione, ecco svelata la domanda nascosta che ci impedisce di affidarci all’autorità di (un) Dio. Nel nostro cuore abita il sospetto che Dio, in fondo in fondo, voglia fregarci, perché lo avvertiamo come una minaccia alla nostra vita e alla nostra libertà. In effetti, il Signore quando entra nei sentieri della nostra vita, viene anche a distruggere. Ma non la nostra vita, soltanto quel pensiero «impuro» che non ci chiude e ci limita, cioè quei modi di vedere e affrontare la realtà fondati su piccole misure, mediocri ed egoiste. Il Signore ordina severamente a questo spirito di uscire, mettendo a tacere la nostra paura di fare verità: «Taci! Esci da lui» (1,25). Questa guarigione non è un processo né semplice né indolore, poiché «lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui» (1,26). Accogliere l’autorità di Dio nella nostra vita comporta un dolore, perché ci chiede di affrontare il trauma della correzione, l’umiltà di dover imparare da un altro a sviluppare nella verità il dono della nostra esistenza. Ma, del resto, come potrebbe un maestro insegnare senza correggere il discepolo? L'autore della lettera agli Ebrei spiega benissimo questa esperienza: «In verità, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che sono stati addestrati per suo mezzo» (Eb 12,11). 
Sereni
Oggi la chiesa celebra il Signore come «unico maestro» e «liberatore dalle potenze del male» (cf colletta). Questa verità può riempire di gioia la nostra vita, se si traduce in un’obbedienza seria e serena, condotta con intelligente collaborazione ad ogni parola che Dio, autorevolmente, è capace di rivolgere alla nostra coscienza. Si tratta di un percorso che non vuole rovinare ma costruire la nostra umanità, cacciando fuori la menzogna che può invece distruggere tutte le nostre migliori energie: l’illusione di avere una libertà che non ha bisogno di essere educata e indirizzata. Questo inganno ci fa precipitare nella faticosissima impresa di dover essere sempre splendidi, sempre all’altezza, sempre sul momento, cercando a ogni costo di bastare a noi stessi e agli altri. Per fortuna, le cose non stanno affatto così. La nostra libertà, come la nostra vita ci è donata da Dio. Quindi solo sotto la sua autorità possiamo imparare a comportarci «degnamente» (1Cor 7,35) e a vivere «senza preoccupazioni» (7,32). Fino a riconoscere che, in fondo, «ogni paternità nei cieli e sulla terra prende» o può prendere «nome» (Ef 3,15) da lui e così accettare le mediazioni umane e storiche attraverso cui la sua autorità ci prende per mano e ci restituisce alla vita dei figli di Dio. 
 

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