XXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Ez 33,1.7-9 / Sal 94 / Rm 13,8-10 / Mt 18,15-20

IN DEBITO



Il tema del perdono, inaugurato dalla liturgia di domenica scorsa, viene ripreso e completato dal vangelo odierno. Non possiamo non riconoscere una speciale provvidenza che ciò accada nella memoria drammatica dell’undici settembre, quando l’anima di tutto l’Occidente, si volge al cielo, per chiedere che il dolore delle vittime di ogni terrorismo sia lenito, che ogni ira e ogni rancore tra gli uomini sappia trasformarsi in misericordia e cammini di pace. 

Quanto
Dopo il bell’insegnamento sulla correzione fraterna, sulla necessità di legarci agli altri rimanendo però assolutamente sciolti dagli esiti che il nostro amore è capace di suscitare, Pietro si avvicina a Gesù per fare la domanda che è sulle labbra di tutti: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18,21). Puntuale e ragionevole come sempre, l’istintivo discepolo pone un interrogativo sulla quantità del perdono che Dio chiede all’uomo di praticare. Tutti sappiamo bene quanto sia difficile restare in situazioni dove ci capita di dover sopportare a lungo il peso – non di rado assurdo e incomprensibile – derivante da un’offesa, un abbandono, un tradimento, una violenza o un’umiliazione. E l’ansia del nostro cuore si trasforma presto in silenzioso grido: “Per quanto tempo dovrò restare in questa sofferenza e in questa solitudine?”. La risposta del Maestro – ovviamente – spiazza e rilancia il problema: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (18,22). Che poi non si capisce se significa quattrocentonovanta oppure sette alla settantesima, ma in ogni caso significa: “Tante volte, sempre”. Alla faccia basita di Pietro e degli altri discepoli – e della nostra – fa replica immediata una parabola per spiegare meglio quale sia la posta in gioco. La cosiddetta parabola del servo malvagio che annuncia come il perdono non sia affatto un problema di quantità, ma di qualità e di motivazioni.

Come
Per capire questo insegnamento del Signore Gesù, dobbiamo subito fare un po’ i conti e tradurre in unità di misure moderne i talenti e i denari di cui parla il vangelo. «Diecimila talenti» (18,24) – il debito del primo personaggio – corrispondono a oltre trecento tonnellate d’oro, qualcosa come diciassette milioni di euro. Invece i «cento denari» (18, 28) del secondo debitore sono pari a mezzo chilo d’argento, corrispondente oggi a qualche centinaia di euro. L’evidente sproporzione tra le due somme di denaro ci fa subito comprendere che la parabola ha un carattere paradossale. È proprio assurdo che qualcuno a cui viene condonato un debito così grande trovi subito dopo la cattiveria di accanirsi con un piccolo debitore che gli viene incontro. Ma è proprio questo assurdo modi di comportarsi  che vuole farci da specchio. Lo capiamo dal tenore farneticante con cui il primo debitore tenta di giustificarsi davanti al suo creditore: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa» (18,27). Non serve un esperto in economia o psicologia per capire che in queste parole c’è in atto un delirio di potenza. Sul quale conviene riflettere bene, perché nella vita spesso ragioniamo e parliamo proprio così anche noi. Di fronte ai nostri errori, ai peccati e ai limiti con cui ci misuriamo quotidianamente, la tentazione è sempre quella di rimuovere l’imbarazzante immagine poco ideale di noi stessi e di prometterne in tempi brevi una migliore e senza difetti. È la ‘tentazione del fotoritocco’, operazione molto amata da riviste e siti web, ma fortunatamente impraticabile nella realtà. L’illusione di poter rimediare ai fallimenti della vita rimboccandoci le mani sta alla radice della nostra difficoltà ad accogliere il perdono non come una cosa da fare (tante volte), ma come un modo di essere (sempre). 

Perché
Il motivo per cui facciamo fatica a perdonare non è perché siamo cattivi, ma esattamente il contrario: perché siamo convinti di essere buoni. Sentendoci sempre in credito e mai in debito, ci sentiamo autorizzati a sopportare gli altri e le loro follie per un tempo limitato e poi a riscuotere il compenso per tanta, eroica e misericordiosa sopportazione, prendendoci la libertà di non amare o di mancare di rispetto. Il vangelo annuncia che la realtà è tutta diversa: siamo tutti radicalmente poveri e debitori. Nessuno è in grado di (ri)pagare il bene ricevuto e il male compiuto. Per convincerci che questa è la situazione da cui dobbiamo essere salvati, Cristo è morto sulla croce, come scrive san Paolo: «Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14,9). Solo se iniziamo a concepirci amati da Dio come figli, sian quando siamo belli sia quando siamo brutti, possiamo comprendere il perdono di Dio e aprirci alla tenerezza verso gli altri. Solo se ritroviamo una gigante gratitudine per tutte le cose che riceviamo in ogni istante, possiamo ricominciare a vivere con responsabilità e amore. Pronti ad arrivare fino al perdono, al dono di sé. Il vangelo del perdono non è un invito a mettere la ciliegina sulla torta dei nostri percorsi affettivi. Si tratta – ben più radicalmente – di un appello a essere persone che misurano la propria capacità di compromettersi con la realtà non a partire dai diritti ma dai doveri maturati. Anzitutto quello splendido, liberante, umanissimo che nasce dalla consapevolezza che «nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore» (14,7). L’assunzione di questo compito ci educa a fare di noi stessi un dono sempre più limpido, sempre più gratuito. A chi, senza meritarlo, è destinato a riceverlo. Così come il Signore fa con noi sempre

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