Mercoledì - XXVI settimana del Tempo Ordinario - Anno I

Zc 8,20-23 / Sal 86 / Lc 9,51-56

RI-COSTRUIRE


I detti di Gesù, che l’evangelista Luca raccoglie in questo piccolo e denso vangelo, si presentano come la migliore diagnosi delle patologie dell’anima evidenziate dalle letture dei  giorni scorsi. Il motivo per cui facciamo fatica a passare dalla legge del più grande a quella del più piccolo, a essere tolleranti con tutti, anche con chi è contro di noi, è da rintracciarsi negli irrisolti legami con la nostra infanzia e con i contenziosi paterni non ancora soluti. Già, le parole del Signore Gesù sembrano indicare la presenza di certe logiche tipiche dell’infanzia dentro gli atteggiamenti della nostra vita adulta. Questo spiega una certa esitazione nel pronunciare un «ti seguirò» (Lc 9,57.61) senza condizioni. Il vangelo puntualizza questo discorso indicando tre grandi tentazioni cui siamo continuamente esposti. 

La prima è la tendenza a nidificare per ridurre al minimo i rischi cui il contatto con la realtà — sempre complessa e priva di significati immediati — ci espone: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (9,58). Facilmente e continuamente, la nostra vita rischia di assomigliare a quella del criceto che, dentro la gabbia, si muove e si trastulla nelle solite cose, posando il capo su false sicurezze che non saziano l’anima. La seconda è l’illusione di dover «seppellire» il trauma dell’infanzia — rappresentato dalla figura del «padre» (9,59) — che condiziona sempre il nostro presente, anziché accorgerci che è ormai giunto il tempo di andare e annunciare «il regno di Dio» (9,60). La terza è la pretesa di poter voltare lo sguardo indietro, per porgere gli ultimi saluti e gli ultimi baci, quando la vita ormai è ormai in movimento verso il futuro: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (9,62).

Sbaglieremmo, se leggessimo queste indicazioni come un crudele invito a trascurare i legami familiari che hanno intessuto l’umanità del Figlio di Dio. Queste parole intendono annunciare che è importante saper riconoscere il momento in cui non è più necessario risolvere e chiarire il passato, perché è ormai tempo di volgersi alla missione che Dio sta affidando alla nostra umanità. Questa sembra essere la coscienza di Neemia che, pur avendo un posto sicuro come coppiere nel palazzo del re Artaserse, non nasconde il suo dolore per la triste sorte di Gerusalemme: «Come potrebbe il mio aspetto non essere triste, quando la città dove sono i sepolcri dei miei padri è in rovina e le sue porte consumate dal fuoco?» (Ne2,3). Il futuro governatore della Giudea non solo è disposto a portare alla luce tutto il suo cuore, ma accetta anche di diventare egli stesso risposta al suo vuoto. Di fronte alla richiesta del re non esita a dire ciò che è pronto a fare, piuttosto che diventare infedele a se stesso e quindi a Dio: «Mandami in Giudea, nella città dove sono i sepolcri dei miei padri, perché io possa ricostruirla» (2,5). E noi, per (ri)costruire cosa, useremo la nostra libertà? 

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