Martedì - VII settimana del Tempo Ordinario

Letture: Es 33,7-11; 34,5-9.28 / Sal 102 / Mt 13,36-43


L’AMORE CONSERVATO



Sembra proprio difficile la parabola della zizzania. La liturgia ce la ripresenta a pochi giorni di distanza, i discepoli ne chiedono spiegazione al Maestro una volta congedata la folla: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo» (Mt 13,36). Ed è abbastanza sintomatico il titolo con cui i discepoli si riferiscono a questo insegnamento di Gesù. Avrebbero potuto chiamarla: “la parabola dal grano e della zizzania», oppure “della zizzania che cresce insieme al grano”, o in altro modo ancora. Invece tutta l’attenzione è rivolta all’elemento di disturbo, al simbolo del male.


Nella sua articolata risposta, il Signore sposta invece l’attenzione dell’inevitabile giudizio – che un giorno certo ci sarà – all’indispensabile ascolto – che nel tempo presente è indispensabile che ci sia. Chiarisce anzitutto che il vero polo d’attrazione della parabola è il «buon seme (che) sono i figli del Regno» (13,36), seminato nel campo del mondo con generosità dal «Figlio dell’uomo» (13,37). Poi precisa la qualità e l’origine dell’elemento secondario, la zizzania: «Sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo» (13,38-39). Quindi fa riferimento alla ben nota esperienza contadina del momento in cui si separa la zizzania dal grano e la si brucia nel fuoco. Con queste immagini, Gesù vuole assicurare che «scandali» e «iniquità» non potranno restare per sempre nel suo «regno» (13,41) anche se la prospettiva resta quella del bene e del suo sicuro trionfo: «Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro». Infine conclude dicendo: «Chi ha orecchi ascolti!» (13,43).


Con questa chiusa il Signore ci offre una chiave di lettura che vuole anzitutto porre l’accento sull’ascolto e non sul giudizio. Sembra che il principale motivo di interesse di questa parabola non debba essere tanto il drammatico confronto tra il grano e la zizzania, faccenda che già in natura si risolve senza particolari traumi. Il rinvio alla «fine del mondo» (13,39), un tempo in cui le cose ora inestricabili saranno certamente separate e separabili, vuole insegnarci a non farci carico di problemi più grandi di noi. La preoccupazione da avere è piuttosto un’altra: ascoltare. Cioè, fuori metafora, continuare a essere seme buono e terra accogliente. Fino a essere intimamente persuasi che l’amore non teme di essere sconfitto o trascurato, si preoccupa solo di rimanere caparbiamente sicuro di se stesso e della propria fecondità. È quanto il Signore afferma al popolo che lo ha appena barattato con un vitello d’oro, attraverso l’ascolto paziente del suo servo Mosè: «Il Signore, il Signore Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e quarta generazione» (Es 33,6-7). Questo è, con tutta probabilità, ciò che i discepoli faticano a comprendere – a credere – nella parabola del buon grano e della zizzania. Che il seme buono abbia in se stesso la capacità di prevalere, alla fine, sul seme cattivo. Che l’amore va conservato anche quando non è accolto o addirittura rifiutato, poiché la sua fecondità è sicura, è per sempre.


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