II Domenica di Pasqua – Anno A

Letture: At 2,42-47 / Sal 117 / 1Pt 1,3-9 / Gv 20,19-31


OTTO GIORNI DOPO



Nei giorni della Quaresima ci siamo ritirati nel deserto insieme al Maestro Gesù, per guardare in faccia le tentazioni che ci abitano, per fare il punto sulla nostra vita. Abbiamo provato a pregare con più fedeltà, ad ascoltare con più distacco impulsi e desideri, a essere maggiormente generosi con chi ci sta accanto. Poi, nella settimana Santa, ci siamo immersi mistero dell’amore di Dio, ricordando «l’inestimabile ricchezza del battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti» (Colletta). Siamo giunti così alla festa di Pasqua, il grande giorno fatto dal Signore, la cui gioia ora bussa alla nostra porta per entrare e cambiare ancora una volta la direzione della nostra vita.


Gioia

Ma non è così facile per il Risorto introdurci in un’esistenza rinnovata, strapparci dalle paure e dalle solite traiettorie in cui spesso ci impaludiamo. Non lo è stato nemmeno per i primi discepoli, testimoni pavidi e autentici della risurrezione di Cristo dal sepolcro. «Erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano», scrive Giovanni, «la sera di quel giorno» (Gv 20,19) nel quale il Crocifisso era stato risuscitato «dalla potenza di Dio» (1Pt 1,5). Seppelliti dentro un grande «timore» (Gv 20,19), i discepoli avevano certamente il cuore a pezzi, dilaniato dal dolore per la scomparsa del Maestro e dal senso di colpa per averlo abbandonato e tradito proprio nell’ora in cui avrebbero potuto dare testimonianza della loro fede nel suo vangelo. In quel momento di timore e sconforto, «venne Gesù», senza sfondare alcuna porta, violando soltanto il regno della tristezza con un riconciliante saluto: «Pace a voi!» (20,19). Mostrando poi, senza alcuno spirito di rivalsa , «le mani e il fianco» (20,20), il tatuaggio del male ricevuto. Possiamo solo immaginare quale big bang sia avvenuto nel cuore smarrito dei discepoli, privi di Giuda – colui che era stato amato fino alla fine – e di Tommaso – troppo distrutto per restare in compagnia. Una felicità improvvisa, capace di scaldare ed emozionare, si accende nei loro cuori: « E i discepoli gioirono al vedere il Signore » (20,20). Improvvisamente, ricevono il regalo di una pace inattesa.


Appuntamenti

Non tutti, però, entrano subito in questa gioia e in questa comunione: «Tommaso, uno dei Dodici , chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù» (20,24). Tommaso non voleva più credere, neanche davanti all’entusiasmo dei suoi compagni: « Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo » (20,25). Il Signore non si scandalizza ma trasforma la sua incredulità in una meravigliosa esclamazione di fede: «Mio Signore e mio Dio!» (20,28). Ultimo a incontrare il Risorto, Tommaso è il primo discepolo a comprendere che la gioia della Pasqua non si incontra in qualunque modo e in qualunque luogo. Il Signore Gesù infatti non vuole che noi semplicemente riponiamo fiducia in lui, ma desidera molto di più: che noi abbiamo «la vita nel suo nome» (20,31). Per questo ha disposto tempi e circostanze in cui questa esperienza di incontro con la sua grazia possa diventare possibile e fruibile a ogni uomo. «Otto giorni dopo» Gesù è tornato in mezzo ai suoi discepoli radunati insieme per insegnare loro che con estrema regolarità, ormai, egli è accessibile e attingibile: nel primo giorno di ogni settimana, nel momento in cui la comunità è radunata nel suo nome, secondo il suo insegnamento: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).


Senza improvvisare

Non ovunque, non sempre ci è donato di incontrare il Signore risorto. Certo, egli ci cerca, ci attende, costruisce percorsi che conducono a lui. Ma nello stesso tempo attende che noi condividiamo con i fratelli la memoria e il desiderio della sua presenza, che diventiamo Chiesa, che impariamo ad accogliere riti e liturgie come splendidi appuntamenti e non come stanche e aride successioni di gesti e parole. Anche nella vita quotidiana ci sono molti incontri che non avvengono se non osserviamo indicazioni e procedure, se non fissiamo tempi e luoghi. Non è spiacevole, ma bello ricordare questo limite di cui tutti abbiamo esperienza. Perché anche l’amore funziona allo stesso modo, l’amore non si improvvisa, anche se oggi sembra il modo più autentico ed emozionante di viverlo. L’amore si costruisce, a poco a poco. E poi lo si alimenta, con fantasia, attenzione, fino a diventare «perseveranti» (At 2,46). Il Signore non ha improvvisato il suo amore per noi, ma lo ha costruito pazientemente nel tempo e nella storia. E ancora oggi rimane fedele alla scelta fatta per noi e per sempre. Attende di incontrarci l’ottavo giorno, ogni settimana, cioè sempre. È inutile sognare a occhi aperti di poter diventare discepoli risorti e gioiosi finché rimaniamo lontani dalla verità, dal bene, dalla giustizia, dalla comunità dei credenti. Il tempo di Pasqua si offre a noi come un nuovo spazio di conversione. A noi così inclini a latitare e a tirare pacchi, a essere assenti anche quando siamo presenti, a rimandare a domani le responsabilità che il Signore ha già posto nelle nostre mani, a rinviare le scelte che ormai il nostro cuore è pronto a fare. Noi che, invece, siamo attesi e guardati con immensa fiducia dal Risorto, già pronti ai suoi occhi a diventare testimoni credibili della sua vita nuova. Come ha fatto Giovanni Paolo II, discepolo e papa, padre e maestro, fratello e profeta, uomo «beato» per aver creduto con perseveranza alla gioia del vangelo.


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