IX Domenica del Tempo Ordinario

Letture: Dt 11,18.26-28.32 / Sal 30 / Rm 3,21-25a.28 / Mt 7,21-27


ROCCIOSI



La liturgia di questa domenica – che mette in pausa il tempo ordinario per dare spazio a quello di Quaresima – risuona come una denuncia dell’incoerenza, quell’odiosa distanza tra il dire e il fare, tanto facile da vedere negli altri, quanto difficile da riconoscere in noi stessi. Il mondo sarebbe dunque diviso in due: da una parte i chiacchieroni, che non realizzano nulla di stabile con il loro (non)agire, e dall’altra quelli che invece magari parlano poco, ma realizzano fatti solidi, che restano a lungo. Se così fosse, avremmo già un bel richiamo per la nostra vita, così sparpagliata in troppe cose, così facilmente ambigua. Ma, a ben ascoltare, la liturgia si spinge oltre, offrendoci un messaggio assai più ricco e profondo di un ragionevole invito a essere autentiche.


Dissociazioni

È vero, esiste una stoltezza – assai difficile da riconoscere e confessare – che consiste proprio nella capacità di tollerare una certa schizofrenia dentro la nostra libertà. Diciamo di essere cose che poi non facciamo, e pratichiamo cose che non c’entrano nulla con quello che, in fondo in fondo, vorremmo essere. E andiamo avanti così, settimane, mesi, anni, individuando colpe e responsabilità fuori, lontano da noi stessi, pur di non ammettere che stiamo deviando dalla (nostra) verità. Il Maestro Gesù ci mette in guardia: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21). Non si tratta di una minaccia, ma di una chiamata. La situazione è chiarissima agli occhi del Signore: «Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia» (7,24), mentre «chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia» (7,26). Ogni giorno la nostra libertà è provocata e messa in moto da tante cose: persone, avvenimenti, incontri e imprevisti. La paura e l’egoismo ci fanno deporre mattoni sulla sabbia, nell’illusione di poterci così garantire in tempi brevi una copertura contro le tempeste della vita. Ma la voce di Dio ci esorta a scavare e a edificare sopra un fondamento solido se vogliamo la garanzia di una vivere lungo e stabile. Già, ma chi ce la fa? Chi è capace di accorgersi che molte molti pezzi della nostra vita non sono altro che mattoni deposti sulla sabbia?


Nessuno

Paolo taglia corto ed esclama: «Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3,23). Lo sguardo infuocato dall’amore di Cristo permette all’apostolo di non cadere nel rischio di ridurre il vangelo a un semplice discorso morale. L’umanità – sembra dire l’apostolo – non è affatto divisa in due categorie, ma accomunata da un unico bisogno, quello di trovare un fondamento di salvezza, su cui poter edificare un futuro di speranza. Se è vero che nella realtà esistono molte distinzioni – non ultima quella tra chi riesce a essere più coerente e chi lo è meno – è altrettanto vero che, dal punto di vista di Dio, ogni distinzione tende a scomparire. Dio guarda le sue creature «indipendentemente dalle opere» (3,28) che sanno compiere, vedendole e giudicandole tutte allo stesso modo: figli privi di vita eterna, continuamente esposti al fallimento, al male, al peccato. Paolo non ha paura di mostrare questo scenario, dal momento che nel suo cuore palpita una incredibile speranza: «Dio ha stabilito (Cristo Gesù) apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue» (3,25), e perciò sa bene che tutti gli uomini «sono giustificati gratuitamente per la sua grazia» (3,24).


Fine del discorso

A questo punto può essere compresa nel modo migliore la parabola con cui Gesù conclude il discorso della montagna, e capire chi è «saggio» (7,24) e chi invece è «stolto» (7,26) ai suoi occhi. «Queste mie parole» che Gesù chiede di mettere «in pratica» (7,24.26) non sono infatti nuove regole da rispettare, in aggiunta a quelle antiche. Sono piuttosto un nuovo tipo di relazione da accettare – con Dio, con noi stessi, con gli altri – a partire dal quale si possono rifare in modo nuovo le cose di sempre. Queste parole, infatti, iniziano con l’indimenticabile anafora delle beatitudini (cf. 5,1-12) con le quali il Signore Gesù ci ha rivelato come e cosa vede quando alza lo sguardo verso la nostra umanità: una terra chiamata a diventare luogo di felicità. Le beatitudini evangeliche «sono la sfida in base alla quale si può credere che non c’è niente altro che possa rendere felici se non quello che si è e ciò che la vita ci permette di essere» (fratel MichaleDavide). Mettere in pratica le parole che il Signore ci ha rivolto sui monti della Galilea – le stupende prospettive risuonate nei vangeli delle domeniche passate – significa provare ad affrontare ogni situazione con sorprendente mitezza, con cuore filiale. Significa accettare serenamente di poter essere spogliati da «pioggia», «fiumi» e «venti» (7,25), e cercare tenacemente di entrare in una rocciosa amicizia con Cristo, imparando dai suoi occhi a guardare la nostra vita e la nostra storia con la misericordia che fa (tornare a) vivere. Certo che poi, quando si è e ci si sente amati, si ama sempre di più e sempre meglio. Con naturalezza. Fino a diventare «perfetti» nel dono di sé.


Beati noi se sapremo porre «nel cuore e nell’anima» (Dt 11,18) queste parole di libertà. Se avremo «cura» (11,32) di legarcele «alla mano come un segno» e di tenerle «come un pendaglio tra gli occhi» (11,18). Ovunque, senza paura, senza arroganza. Per porre mattoni «sulla roccia» (Mt 7,25) della fedeltà di Dio. Per essere, per rendere felici.


Commenti