V Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Letture: Is 58,7-10 / Sal 111 / 1Cor 2,1-5 / Mt 5,13-16


ESSERE (O NON ESSERE)



Dopo aver proclamato che siamo liberi di essere pienamente noi stessi – poiché la felicità è qui, ora – in questa domenica il Signore Gesù continua il discorso della montagna dichiarando cosa possiamo essere. Sfidando a viso aperto la nostra ingenua coscienza di ciò che crediamo di essere e la spocchiosa autorità del pensiero moderno, che definisce l’essere umano attorno a una certa idea di libertà e alla carta – sempre infinita – dei suoi presunti diritti, la parola di Dio annuncia che, in realtà, noi siamo molto di più. Che accontentarci di una piccola misura, di un’esistenza mediocre significherebbe semplicemente rinunciare a noi stessi.


Essere

«Voi siete il sale della terra», «voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13.14), esordisce così il Maestro. E non si tratta certo di un modo per fare audience (ascoltare i vangeli delle prossime domeniche per credere!). Ma nemmeno di un’esortazione morale, che vuole indurre i discepoli ad assumere inconsueti atteggiamenti o posture dell’anima. Queste parole sono, semplicemente, una rivelazione su ciò che l’uomo è. La forma dell’indicativo – scelta non certo a caso al posto del condizionale o dell’imperativo – non lascia alcun dubbio. Questa è per noi la prima difficoltà nel porci in ascolto di questo – a dir la verità di ogni – vangelo: accettare che il significato profondo, cioè autentico, della nostra vita non stia dentro la nostra coscienza o nel segreto dei nostri sogni, ma in una parola che giunge dall’esterno, nel cuore di un Altro che pretende di conoscerci per diritto d’amore. Non è facile per noi credere che il senso del nostro esistere sia diverso dal tran tran quotidiano, quella sequenza di eventi banali e dimessi che quando finisce in una canzone diventa poesia: «Si vive, si muore, si prova dolore dal quale non c’e’ un pensiero che ti consola, si parla coi cani, si stringono mani, si fa spesso finta di essere qualcosa, si guarda il tramonto, si arriva in ritardo i piovono addosso macerie di vita esplose, si fanno dei figli, si sognano sogni si fanno castelli di sabbia sul bagnasciuga» (L’elemento umano, Jovanotti). Il Signore Gesù sembra dichiarare che c’è un elemento divino nel nostro essere uomini e donne, una qualità di vita che è della stessa pasta di cui è fatto Dio. Difficile da credere, ma bellissimo: noi discepoli di Cristo siamo il sapore della storia, la luce del mondo.


Divenire

La gioia dell’indicativo si veste però subito di realismo, attraverso il brivido dell’ipotetica: «ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?» (5,13), e l’assurdità di futuri possibili: «non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio» (5,14-15). Dopo averci detto ciò che siamo, il Maestro ci rammenta anche la responsabilità di diventarlo. Se tuttavia ci sentiamo più onorati che intimoriti di fronte alla rivelazione del vangelo, vale la pena di chiederci cosa significhi essere, e quindi diventare, oggi la luce del mondo e il sale della terra. Forse ciascuno ha bisogno di calare queste domande nella propria vita, per capire come e quando oggi un discepolo di Cristo possa emanare luce e restituire sapore e spessore alla realtà, quel triste palcoscenico di miseri costumi e tristi passioni, in cui si vive ormai come se una cosa valesse l’altra. Forse si potrebbe cominciare dal coraggio di parlare con più verità in famiglia, nelle comunità di amici o fratelli a cui apparteniamo; di avere maggior sete di giustizia negli ambienti di lavoro, nella polis che tutti o edifichiamo o distruggiamo; di mostrare con i fatti che, prima di chiedere agli altri riconoscimenti o approvazioni, noi cristiani siamo anzitutto disposti a perdere la nostra vita – e quindi privilegi, poteri, visibilità – pur di annunciare la Vita che abbiamo incontrato. Forse si potrebbe continuare pensando che la mitezza non può essere la forma dei nostri gesti e delle nostre parole solo in alcune, privilegiate situazioni, ma sempre. In chiesa come per strada, al lavoro come in famiglia. Perché il regno di Dio è un cantiere sempre aperto.


In relazione

Il vangelo di oggi infatti si conclude molto opportunamente con un fantastico imperativo, che riaccende la nostalgia delle prime pagine della Bibbia (cf. Gen 1,3), quelle in cui si racconta che tutto sta per cominciare: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Dopo averci detto che siamo essenzialmente luce e che questo destino è affidato anche alla nostra libertà, il Signore si permette di impartirci un comando, che non vuole compiersi in tristi narcisismi, ma nel calore di relazioni fraterne. Come ricorda il profeta la nostra luce può sorgere «come l’aurora» (Is 58,8) e brillare «come il meriggio» (58,10) solo se il nostro vivere consiste nel «dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo» e se queste cose le facciamo «senza trascurare i parenti» (Is 58,7). Anzi, proprio aprendoci agli altri nel servizio e nella solidarietà, accade che la nostra ferita – il nostro bisogno di essere amore che sanguina – «si rimarginerà presto» (58,8). Sempre corriamo il rischio che le belle parole con cui Dio riesce a intercettare la nostra coscienza diventino facilmente lustrini e trofei che tentiamo di esibire «con l’eccellenza della parola o della sapienza» (1Cor 2,1). La bella notizia che siamo splendore e sapore merita una risposta migliore, desidera compiersi «nella debolezza» di ordinari atti d’amore, i soli gesti capaci di esprimere la «potenza di Dio» (2,5).


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