Festa della Cattedra di san Pietro

Letture: 1Pt 5,1-4 / Sal 22 / Mt 16,13-19


A SCUOLA DI SPERANZA



Oltre quarant’anni fa, in un momento storico in cui la cultura occidentale cercava di affrancarsi dalle autorità costituite avvertite concorrenziali a una piena libertà, Paolo VI trovava il coraggio di esprimere con queste parole il senso della festa della Cattedra di san Pietro: «Tocca a noi, credenti, speranti ed amanti, portare, secondo l’arte nostra, continuamente all’uomo cieco la luce, all’uomo affamato il pane, all’uomo adirato la pace, all’uomo stanco il sostegno, all’uomo sofferente il conforto, all’uomo disperato la speranza, al fanciullo la gioia della bontà, al giovane l’energia del bene. Se crisi oggi nel mondo vi è, essa è quella della speranza, quella dell’ignoranza dei fini per cui valga la pena d’impiegare l’enorme ricchezza di mezzi, di cui la civiltà moderna ha arricchito, ma altresì appesantito, la vita umana. Noi siamo le guide. Noi siamo coloro che hanno la scienza dei fini. Noi dobbiamo essere maestri della speranza» (Omelia per la celebrazione eucaristica, 22 febbraio 1968). Queste parole ci offrono una singolare prospettiva da cui guardare l’odierna festa liturgica, che invita ogni comunità cristiana a riconoscere nella sede di Roma il punto di riferimento e di garanzia per la propria fede nel Vangelo.


Il potere ricevuto dall’apostolo Pietro, che ha riconosciuto per primo in Gesù di Nazaret «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), non si traduce infatti in un’autorità tesa a disciplinare la libertà umana, ma in un servizio rivolto a custodire la libertà di Dio che, attraverso le «sofferenze di Cristo», desidera rendere tutta l’umanità «partecipe della gloria che deve manifestarsi» (1Pt 5,1). Non ci sfugga dalla memoria il fatto che quella «pietra» (Mt 16,18) solida e sicura su cui «Simone, figlio di Giona» (16,17) ha ricevuto la promessa delle «chiavi del regno dei cieli» (16,19) è un luogo dove «né carne né sangue» (16,17) conferiscono il diritto di essere e di rimanere. Pietro stesso ha dovuto compiere un doloroso cammino di spogliazione davanti alla misericordia di Cristo per potervi tornare, fino a diventare un autentico modello «del gregge» (1Pt 5,3) capace di «confermare i fratelli» (cf. Lc 22,32) nella speranza del Vangelo.


Suggestivo può essere il ricordo del monumento alla cattedra dell’apostolo che si trova nell’abside della Basilica di san Pietro, opera del Bernini realizzata in forma di grande trono bronzeo sopra il quale spicca il finestrone in alabastro raffigurante la colomba dello Spirito. In questa immagine troviamo condensato tutto il senso evangelico dell’odierna festa liturgica. I discepoli di Cristo sparsi per il mondo si rallegrano di avere nel vescovo di Roma un visibile punto di riferimento per la propria fede e un segno di unità con ogni assemblea che confessa la fede nel vangelo. Ma al contempo essi non dimenticano che «non senza ragione è stato consegnato a uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti» (Leone Magno), cioè che tale autorità non è tanto la gestione di un privilegio, quanto la custodia di una misericordia. Quella misericordia che Pietro, primo tra gli apostoli, ha avuto la grazia di sperimentare attraverso l’azione dello Spirito. Ciò che impedisce persino alle «potenze degli inferi» (Mt 16,18) di far vacillare la cattedra di Pietro è la fedeltà di Dio che promana dal mistero pasquale e che abilita ogni cristiano a interpretare la sua esistenza come un generoso servizio da realizzare «non perché costretti ma volentieri, come piace a Dio» (1Pt 5,2), e a porsi di fronte agli altri «non come padroni» (5,3), ma come collaboratori di gioia (cf 2Cor 1,24), come maestri di speranza.


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