IV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Letture: Sof 2,3; 3,12-13 / Sal 145 / 1Cor 1,26-31 / Mt 5,1-12a


NON ALTROVE



Sono cresciuto in un vicolo, in una di quelle strade aperte solo da una parte, che i francesi chiamano simpaticamente cul de sac. Il vicolo non conduce in nessun luogo, non è terra di passaggio. È un posto da cui si esce o in cui si resta. Non avrei immaginato che questo dettaglio urbanistico un giorno avrebbe potuto risultare ai miei occhi metafora adeguata a illustrare il senso di una pagina del vangelo. Mai, fino a oggi naturalmente!

Felici gli ultimi?!

In poche liturgie le letture sembrano allearsi in perfetta sinfonia come in questa domenica. «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero» annuncia Sofonia a Israele, per conto di Dio. Paolo, dal canto suo, ricorda ai cristiani di Corinto per quale motivo Dio ha posto il suo sguardo su di loro: «Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili» (1Cor 1,26). Il Maestro Gesù, salito sulla montagna come un nuovo Mosé, rovescia definitivamente l’etica della felicità umana, con il messaggio delle Beatitudini: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Non ci sono dubbi: a Dio piacciono i poveri, gli umili, gli «abbassati di vento», come dice Gesù attualizzando la voce del profeta Isaia. La notizia intenerisce sempre e subito il nostro animo, sempre un po’ ammaccato e sconfitto dal passaggio dentro l’ingranaggio del quotidiano. Contento di sentire che la felicità non è in disaccordo con i fallimenti. Ma la notizia buona del vangelo va accolta con cautela, perché potremmo facilmente fraintenderla. Come se Dio ci stesse proponendo di assumere una postura più curva e rassegnata, più docile e remissiva di fronte alla sua volontà. Una specie di esaltazione dell’ultimo posto, quasi fine a se stessa. No, non questo è il messaggio delle Beatitudini. Questa lettura è la nostra pericolosa esegesi che nasconde, in realtà, paura e narcisismo, visi solo apparentemente distanti. No, dice altro la lista delle paradossali letizie.


Altrove

Per capirlo, si cerca spesso di rendere il linguaggio asciutto e simbolico di Gesù in termini più concreti, per attualizzarne l’incredibile messaggio. Cito una delle mie parafrasi preferite: «Lieti, lieti, lieti tutti quelli che sono dati per spacciati oggi, i migratori respinti, i bombardati in casa, i difensori di pace derisi dai signore delle guerre seduti alla presidenza (E. De Luca). Anche davanti a una formulazione linguistica più efficace e attuale, corriamo il rischio di fraintendere il messaggio che le Beatitudini intendono comunicare. Potremmo infatti comprenderlo ancora come un’esortazione a rientrare nei ranghi delle persone che scelgono il bene, a costo di rimanere ai margini, ad abbracciare una vita più degna e virtuosa. Se così fosse, le Beatitudini resterebbero ancora un discorso morale – probabilmente il più bello mai uscito da fiato umano – che, in fondo, annuncia ancora una volta all’uomo: guarda che la felicità sta altrove! Se ti sforzi, se ti impegni, se accetti di essere povero e umile, allora ecco, finalmente, incontri la felicità. Non dove sei adesso. Non qui, non ora.


Gli ultimi? Felici!

E invece è proprio il contrario. Le Beatitudini di Gesù annunciano che non c’è bisogno di spostarsi per essere felici. Non più. Infatti, l’unica lettura non moralistica di queste parole è quella che si ricorda che chi le sta pronunciando – il Signore Gesù – parla soprattutto a partire dalla sua personale esperienza, che egli desidera allargare e proporre a ogni uomo. La sua esperienza è una scelta di vita, l’adesione piena, fedele alla logica dell’incarnazione. Aver scelto di dimorare nella carne della nostra umanità permette a Gesù di proclamare che la realtà, così come essa è – e non come noi vorremmo che fosse – può diventare il luogo della nostra gioia e il tempo della nostra sazietà. Le Beatitudini sono il contrario di ogni spiritualità che punta in alto in termini comparativi, illudendoci che una vita santa sia quella che si rivela più buona, più giusta, più coerente rispetto alla mediocrità diffusa. Tutto il contrario: le Beatitudini ci invitano a spegnere i motori e a puntare in basso, fino a credere che non esiste altro che possa donarci felicità se non quello che siamo e ciò che la vita ci permette di essere. Non dicono che dobbiamo essere miti, puri, poveri, per avere accesso ai doni di Dio. Dichiarano piuttosto che, nella misura in cui rimaniamo nel vicolo della nostra vita e offriamo un consenso umile alla realtà così come ci viene incontro, allora possiamo scoprire che proprio attraverso le lacrime e le sofferenze si gusta la gioia di diventare uomini e donne fino in fondo. Lontano da eroismi e vittimismi, con la serena consapevolezza che a questo compito siamo «chiamati» da Dio. Solo così – con estrema naturalezza – ci accorgiamo che che non possiamo che piangere di fronte al male, deporre le armi davanti all’ingiustizia, respingere alcuni moti del cuore per poterlo purificare, avere misericordia per sperare di riceverne, lottare per la giustizia affinché il mondo diventi la casa di tutti, non impadronirci di nulla, perché ogni cosa ci è da sempre donata.


Per essere felici – annunciano le Beatitudini – non occorre andare altrove. Basta onorare la terra in cui la provvidenza di Dio ha posto la nostra vita. Senza illusioni, senza paure. Il Dio che si è immerso pienamente nella nostra umanità ci rende capaci di restare con speranza dentro il vicolo della nostra esistenza. Fino a renderlo, attraverso il profumo della nostra umanità, terra cordiale, piena di frutti; luogo di felicità, da gustare e da condividere con tutti. Umilmente.



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