II Domenica di Avvento – Anno A

Letture: Is 2,1-5 / Sal 122 / Rm 13,11-14a / Mt 24,37-44


SENZA FUGGIRE



Il tempo di Avvento solo in apparenza è meno intenso e drammatico di quello quaresimale. Natale e Pasqua sono distanti unicamente nella nostra società non più educata a guardare con profondità i segni e i contenuti della fede cristiana. Una società che ha trasformato il ricordo dell’incarnazione di Dio in un grottesco affare commerciale, in cui la promessa di essere più buoni e meno soli vale soltanto per chi se lo può permettere. La seconda domenica di Avvento è un incalzante appello a entrare nella serietà del Natale, accettando di dover operare un drastico cambiamento, tutto racchiuso nella voce di Giovanni il Battista: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,2).


Razza di vipere

La predicazione del Battista, incisiva e suadente - al punto che «tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare confessando il oro peccati» (3,6) - era un grido «nel deserto» del torpore e della superficialità: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!» (3,3). Il Signore - che ha sempre molta voglia di venire a noi - ha bisogno di una strada per poterci incontrare, i cui confini non siano troppo sfumati o irregolari. Il significato, a prima vista vago, di queste parole si chiarisce subito nella voce del grande profeta: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente?» (3,7). C’è una cosa che abbiamo tutti imparato a poco a poco nella vita: non preoccuparci delle conseguenze dei nostri atti, immaginando che Dio sia spettatore impassibile di quanto facciamo, soprattutto alle sofferenze che (ci) procuriamo continuamente. A forza di ferire o di essere feriti, ci siamo abituati a rimuovere o a occultare - talvolta persino a noi stessi - le forme sconvenienti che la nostra vita ha assunto. Così abbiamo curvato i sentieri del Signore, abbiamo sparecchiato la sua via. Non tanto sbagliando, ma facendo finta di non averlo fatto. Non solo peccando, ma soprattutto nascondendo al Padre il volto di figli che possono sbagliare. Arrivando infine a teorizzare, che forse non esiste giudizio per le nostre azioni, che sfuggire «all’ira imminente», tutto sommato, valga la pena.


Abramo per padre

La catechesi di Giovanni diventa sempre più intrigante: «E non crediate di poter dire dentro di voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (3,8-9). Pensando che far parte di una stirpe santa fosse già garanzia sufficiente per un rapporto con Dio, i Giudei si erano abituati a non verificare più con sincerità il loro stile di vita, valutando quale effettivo «frutto» (3,8) c’era o mancava nell’albero della loro religiosità. Allo stesso modo anche noi cristiani, potremmo vivere pensando che la bontà e l’autenticità del nostro battesimo dipenda dal fatto che, in passato, abbiamo imboccato un buon sentiero: che abbiamo un’invidiabile famiglia, un lavoro, una posizione nel mondo o nella chiesa, apparteniamo a un gruppo forte, abbiamo amici, beni e salute. Oppure che il Signore, in giorni di grazia, ci ha guidato a compiere scelte radicali in nome del vangelo. Attenzione - dice il Maestro Gesù - ciò che conta non è il curriculum delle glorie passate, ma la direzione che la vita ha nel tempo presente. Dio può far sorgere gente capace di lanciare la propria vita avanti a sé - come ha fatto Abramo - anche dalle pietre. Sappiamo, infatti, che ogni santa ispirazione viene dal Signore, che «ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto» (Gc 1,17). Il punto è però un altro: noi - ora - quale frutto stiamo producendo? Un frutto realmente «degno della conversione» al vangelo di Dio?


La scure alla radice

Terribile, poco malleabile, la sentenza del Battista: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 1,10). Gli alberi che non portano frutto devono essere tagliati. Non perché chi taglia sia cattivo, ma perché ciò che viene tagliato deve ritrovare fecondità. Spesso proiettiamo su Dio giudizi negativi perché non riusciamo più ad avere obiettività nei nostri confronti e fiducia di poter incontrare un giudizio di misericordia. Siamo alla seconda domenica di Avvento ed è già il tempo di guardare verso il bambino che adoreremo nell’umiltà del presepe non solo come «acqua» che rinfresca e disseta il nostro cuore, ma come un «fuoco» e uno «Spirito» (3,11) che vuole riscattare tutta la nostra realtà immergendola nella santità di Dio. Se vogliamo davvero una conversione, se desideriamo entrare in quel regno che è vicino a ciascuno di noi, occorre permettere alla parola di Dio di essere «efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio» (Eb 4,12). Il fuoco dell’amore di Dio che si avvicina non vuole intimorire i nostri animi già stanchi e disorientati, ma offrirci «perseveranza e consolazione» (Rm 15,4). Affinché sul tronco secco dei nostri giorni possa dimorare il suo Spirito e fioriscano i frutti più desiderabili: «sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore» (Is 11,2).


Sarà Natale, se non fuggiremo davanti a questa parola dura e esigente, che in questa domenica si posa sulle nostre radici come una scure.

Per strapparci dall’illusione di una vita serena «secondo le apparenze» (11,3).

Per riconsegnarci all’avventura di una vita piena, «gloriosa» (11,10).


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