XXXII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: 2Mac 7,1-2.9-14 / Sal 17 / 2Ts 2,16-3,5 / Lc 20,27-38


FIGLI DELLA RISURREZIONE



Dopo aver celebrato la comunione dei santi e il ricordo dei morti, la liturgia di questa domenica insiste sul tema della risurrezione, mistero di amore che sta al cuore di tutta la vita e la speranza cristiana. Già ai tempi di Gesù non era facile assumere una posizione stabile e chiara davanti alla prospettiva di una vita capace di liberarsi dai lacci della morte. Per noi che viviamo dopo la pasqua di Cristo le cose dovrebbero, almeno in parte, essere più luminose. In realtà la fede nella risurrezione resta un passaggio stretto per ogni generazione umana, dal momento che non riguarda solo la «vita futura» (Lc 20,35), ma il modo con cui si affronta quella «di questo mondo» (20,34). Il mistero della risurrezione, ieri come oggi, solleva domande.


Risurrezione?

«In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi - i quali dicono che non c’è risurrezione - e gli posero questa domanda [...]» (20,27). I sadducèi erano una sorta di aristocrazia intellettuale in Israele. Molto aperti da un punto di vista politico, con generose aperture al governo romano, erano molto chiusi da un punto di vista dottrinale, attenendosi in modo rigoroso a quanto (e solo quanto) stava scritto nella Torah, senza aggiunte né commenti. Un giorno si avvicinano a Gesù per tendere insidie alla sua predicazione che incanta le folle parlando di vita e di amore. Gli pongono il caso di una donna che rimane senza figli, nonostante sette fratelli abbiano cercato di prenderla in moglie, in obbedienza alla legge di Mosè che imponeva ai fratelli di un marito defunto di assicurare «una discendenza al proprio fratello» (20,28) prendendo in moglie la cognata. Una legge che può sembrare ai nostri occhi un po’ primitiva e sconveniente, ma che richiama una coscienza forse ormai smarrita nel nostro adulto occidente: la vita umana ha bisogno di essere perpetuata.

La domanda rivolta a Gesù non è affatto stupida, ma rivela un modo di guardare verso il futuro molto influenzato dal modo di affrontare il presente. C’è infatti nelle loro parole qualcosa di astratto e disinteressato, tipico di quando ci si rifugia nelle teorie per non lasciarsi toccare dal dramma della realtà. Un modo di parlare e di fare informazione non distante da quella verbosità violenta e spudorata di cui è satura la nostra società mediatica, dove il dolore umano è ridotto a merce giornalistica, il mistero del male esposto senza il decoro della compassione e il giudizio delle misericordia.


Prendere e morire

Per i sadducèi non c’è «risurrezione per la vita» (2Mac 7,14) perché essi, attraverso il benessere e il potere accumulato, evitano accuratamente di affrontare lo scandalo della morte di cui tutti fanno esperienza, soprattutto i poveri e i piccoli. Più che non esserci, a loro la risurrezione non interessa che ci sia, dal momento che si stanno giocando solo nello scenario di questo mondo, dove le persone «prendono moglie e prendono marito» (Lc 20,34). Sono lontanissimi da quel modo di interpretare le occasioni e gli imprevisti come momenti per riporre fiducia nel Dio «dei viventi» (20,38), testimoniato con limpidezza da quei «sette fratelli» (2Mac 7,1) che si dichiarano «pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri» (7,2): «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati» (7,14). Esiste infatti un modo di vivere secondo la logica di questo mondo che rientra nel campo semantico del prendere e del possedere. Ed esiste invece un modo di vivere in questo mondo illuminato dalla logica della risurrezione che si esprime nel dare e nel restituire. Ogni giorno, nelle piccole e nelle grandi circostanze, ci giochiamo la scelta tra questi due orizzonti. C’è un modo infantile, aggressivo, perennemente insoddisfatto con cui ci abbarbichiamo alle cose e alle persone, cercando appagamenti affettivi, succhiando illusioni e arraffando surrogati di gioia. In questa logica i conti, che paghiamo e facciamo pagare, non tornano mai. Perché si prende e poi - sempre - si muore. Si rimane senza quella porzione di vita che avevamo tentato di garantirci.


Non prendere e non morire

Ma c’è pure un modo di vivere ‘senza prendere’ che i «figli di Dio» (Lc 20,36) imparano, come un’arte e un’educazione del cuore. Un modo che sarà pienamente visibile e comprensibile solo nella «vita futura», quando tutti saremo «figli della risurrezione» (20,36), ma che già ora si esprime nella capacità di assumere relazioni libere con tutto e con tutti. Liberi soprattutto dalle ansie di misurare le cose attraverso la paura di perderle. I discepoli del Signore risorto ricevono dal suo Spirito la forza per collocare le cose in uno scenario più grande, dove «tutti vivono per» (20,38) Dio e non in virtù delle forze e delle occasioni di questo mondo, sempre così bizzarre e apparentemente inique. Da sempre i cristiani si coinvolgono nel mondo, senza lasciarsi determinare dalla logica del mondo. Ciò non significa assumere posture e atteggiamenti disincarnati, di affettata spiritualità, ma cogliere «ogni opera» da compiere e ogni «parola» (2Ts 2,17) da dire, nel suo giusto significato. Non smarrendo mai la memoria di «Dio, Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza» (2,16). Relativizzando le ansie di fronte alle sfide che ci vengono poste. Restando liberi dalla necessità di sopravvivere. Soprattutto, ricordandoci che se prendiamo moglie o marito, non è solo per continuare la discendenza umana, ma per vivere un «grande mistero» (cf. Ef 5,32) d’amore, che testimonia la fecondità e la compassione di Dio. Che se scegliamo o accettiamo di non sposarci, non è per godere o sopportare i privilegi della solitudine, ma per annunciare al mondo che tutti siamo giudicati degni di una vita futura, nella quale non è più possibile morire. Noi cristiani «abbiamo questa fiducia nel Signore» (2Ts 2,4).

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