XXIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: Es 32,7-11.13-14 / Sal 51 / 1Tm 1,12-17 / Lc 15,1-32


NULLA È PERDUTO



Se domenica scorsa abbiamo ascoltato senza distrazioni e senza attenuazioni la ruvida parola del vangelo, dovremmo aver sperimentato perlomeno un certo disagio. Ma chi ce la fa a rinunciare a tutto? Chi può essere discepolo di Cristo? Nessuno, ci viene da rispondere. Oggi le Scritture modificano l’orientamento del nostro sguardo, svelandoci il volto di un Dio che compie per primo quel passo di conversione indispensabile a una vita piena. Un Dio che non ha pace finché non ha incontrato e salvato tutta la nostra esistenza.


Un Dio che si pente

C’è però un problema di fondo. Anche se è difficile ammetterlo, anche se può sembrare troppo audace confessarlo, noi - più o meno coscientemente - abbiamo la percezione di essere un po’ più morbidi di Dio, il cui modo di agire (o di non agire) ci appare talvolta duro e spigoloso. È quanto la prima lettura dell’Esodo in qualche modo lascia pensare. Di fronte al peccato di idolatria del «vitello di metallo fuso» (Es 32,8), si accende l’ira di Dio che medita di divorare tutto il popolo. Allora il fedele e pietoso Mosè si mette a supplicare il Signore cercando di fargli cambiare idea: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?» (32,11). Il finale è lieto. Dice la Scrittura che «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14). Siamo davanti al racconto di un Dio che si pente? Oppure di un uomo - Mosè - e di un popolo - Israele - che arriva a scoprire quanto Dio sia lento all’ira e ricco di misericordia.

Degni di fiducia

Non diverso è quanto emerge dalla seconda lettura, dove ascoltiamo l’esperienza di Paolo che, attraverso un sofferto percorso, giunge ad imbattersi in un Dio che usa volentieri «misericordia» (1Tm 1,13) con le sue creature, poiché giudica l’uomo «degno di fiducia» (1,12) anche quando questi è «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1,13). Questo è il vangelo che da duemila anni la chiesa ripete con gioia e fierezza. La vita di innumerevoli discepoli e santi ce ne dà testimonianza, ricordandoci che viviamo tutti sotto un cielo paziente, al cospetto di un Dio pieno di «magnanimità» che desidera regalarci «la vita eterna» (1,16). Eppure, noi facciamo tanta fatica a crederlo, a lasciarci andare.

Al 100%

Il vangelo di questa domenica approndisce il mistero. Non tanto la parabole splendida e celebre del cosiddetto «figliol prodigo», quanto le due parabole minori che la introducono: quella della pecora smarrita e della moneta perduta. Gesù si sta rivolgendo a quei «farisei e scribi» (Lc 15,2), che si scandalizzano del suo essere circondato da peccatori pubblici. La storia è abbastanza nota: un uomo si accorge che nel suo gregge manca una pecora, allora «lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova» (15,4); una donna, non vedendo una delle sue dieci monete, in piena notte «accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova» (15,8). Entrambi, non appena hanno trovato la cosa perduta, tornano a casa, chiamano gli amici e fanno festa. Pieni di gioia. La domanda sorge spontanea: perché quest’uomo e questa donna si mettono a cercare con tanta passione quello che hanno perduto? La risposta può essere molto semplice: perché sanno che, da qualche parte, questa cosa c’è ancora!


Mutatis mutandis, perché Dio ci cerca? Perché il suo amore nei nostri confronti è così fedele e ostinato? Perché sa che noi ci siamo! Perché ha ben presente il figlio che è in noi, guarda con clemenza tutto ciò che in noi è perduto, le occasioni e le cose belle che ci siamo persi di noi stessi. È uno sguardo davvero diverso da quello che noi abbiamo su noi stessi e su gli altri. Noi vediamo la realtà spesso sotto una luce negativa e ne proviamo disprezzo. Il Signore invece non si stanca mai di vedere il nostro bicchiere mezzo pieno, scorgendo in noi le potenzialità sopite o mortificate, che attendono riscatto. Dio sa - poiché siamo suoi figli - che una persona che ha sbagliato non è una persona sbagliata. Di più: egli è persuaso che proprio chi ha toccato il fondo è in grado di fare un salto di qualità nella sua vita e compiere meravigliose trasformazione del suo modo di essere. Ce lo conferma Paolo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,15-16). Per questo Dio non si accontenta mai di una misura inferiore al 100%. Noi riusciamo con buona facilità a mettere tra parentesi tutto quello che nella vita non ci piace o non riusciamo ad accettare. Perché ci guardiamo e ci valutiamo a partire dalla nostra rassegnazione. Dio questo sguardo non riesce proprio ad averlo, perché è convinto che in noi resta sempre qualcosa capace di corrispondere a lui. Al di là di ogni peccato e di ogni ambiguità, egli crede fermamente che che ogni persona, ogni cosa, ogni situazione meriti di essere cercata e ritrovata. Ed è questo il motivo per cui «davanti agli angeli» c’è «gioia» (Lc 15,10), per cui Dio sorride: perché niente, nessuno è già perduto. Per questo anche noi possiamo sorridere.


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