XXIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: Sap 9,13-18 / Sal 90 / Fm 9b-10.12-17 / Lc 14,25-33


NON È NECESSARIO



Questa domenica le Scritture ci costringono a riflettere. E a scegliere quale sapienza desideriamo abbracciare per orientare i passi del nostro cammino. Esistono infatti molteplici punti di vista da cui osservare e interpretare la vita. Per esempio quello della scienza, che «con fatica» si appassiona ad approfondire «le cose della terra» e « le cose del cielo» (Sap 9,16). Proprio una delle più autorevoli e ascoltate voci della comunità scientifica internazionale (S. Hawking), in questi giorni, ha avanzato un’audace tesi, secondo la quale «Dio non sarebbe necessario a spiegare la creazione dell’universo». Sebbene l’astrofisico britannico possa aver compiuto un’indebita deduzione, sconfinando in un ambito dove il metodo scientifico non è in grado di giungere a pronunciamenti legittimi, la sua tesi porta in sé qualcosa di intrigante. La stessa parola di Dio, contenuta nelle letture di questa liturgia domenicale, comunica una notizia abbastanza simile e altrettanto sconcertante: essere credenti - meglio, discepoli di Cristo - non è nell’ordine delle cose necessarie.


Scremature

Il Maestro Gesù, circondato da «una folla numerosa» (Lc 14,25), non si lascia per nulla incantare dal fascino dei grandi numeri, che spesso seducono e ingannano. Si gira verso i tanti - troppi - discepoli che stanno camminando lui e li scuote ponendo condizioni molto esigenti: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (14,26). Non sazio, aggiunge: «Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (14,27). La nuova traduzione cerca di rendere immediatamente comprensibile un originale che in greco è davvero scandaloso. Gesù afferma che per essere gente capace di seguirlo, è necessario ‘odiare’ i legami familiari e amicali, e persino la propria stessa vita. Inoltre bisogna fare i conti con la croce, cioè con il peso della realtà - nostra e altrui - che chiede di essere assunto e portato con quotidiana fedeltà. È interessante ascoltare queste parole in un momento non certo facile (ma probabilmente fecondo) per il cristianesimo occidentale. Nella logica del vangelo assumono poca importanza le statistiche e le strategie volte a conservare un certo impatto ambientale che la Chiesa ha saputo costruire lungo i secoli. Più decisivo agli occhi di Gesù è chiederci se siamo davvero disposti a scommettere la nostra vita sulla sua parola, oppure siamo tutto sommato prigionieri di quei legami affettivi e di quella cura per noi stessi che, per quanto importanti, non possono darci la vita piena.


Essere discepoli

Sbaglieremmo a rintracciare in queste parole una minaccia, o un ricatto. Il Signore Gesù pone dentro di noi l’utilissimo giudizio di una constatazione. Non ci dice che se non facciamo alcune cose, allora lui ne farà o non ne farà altre. Ci costringe semmai a riconoscere che, finché non siamo liberi da certe aspettative familiare e da una ossessiva attenzione a noi stessi, è praticamente impossibile seguire la proposta di vita del vangelo, che ci conduce a mettere l’altro prima e oltre noi stessi, secondo quell’amore esagerato che è in Dio. Non c’è giudizio e non c’è condanna, ma la forza di un sano realismo, che ci costringe a riconoscere che non è possibile entrare nella vita adulta dei figli di Dio, senza operare tagli nelle nostre, più o meno evidenti, schiavitù affettive e nella nostra abitudine a far dipendere la nostra vita dagli altri, o dall’assenza di minacce che possano turbare il nostro corpo o il nostro spirito.

Essere liberi

Per essere discepoli del Regno occorre tanta libertà. E per essere liberi è necessario costruire e combattere ogni giorno, come Gesù stesso osserva, attraverso l’immagine della «torre» (14,28) da costruire e della «guerra» (14,31) da affrontare. Chiaramente il primo e più temibile avversario è il nostro io, oppresso da continui bisogni di rassicurazione e innumerevoli istinti di autoconservazione. Fino a quando non siamo disposti a rinunciare a «tutti gli averi» (14,33), magari riusciamo a essere brave persone, che si accontentano di non far male a nessuno, né di operare ingiustizie. Ma essere cristiani, cioè uomini e donne che camminano dietro a Gesù Cristo, significa scegliere di abbracciare una vita più grande, non più oppressa dalle piccole misure. Significa sentirsi chiamati a compiere le opere stesse di Dio, come hanno fatto i santi. Come Paolo, per esempio, che con grande libertà interiore suggerisce al «carissimo» amico Filemone di riaccogliere Onésimo, il suo schiavo che era scappato, «non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo», di accoglierlo «sia come uomo sia come fratello nel Signore» (Fm 16). Paolo non abolisce la schiavitù, ma si prende la libertà di oltrepassarla secondo la logica della carità, che è sempre capace di realizzare un bene che non è «forzato, ma volontario» (Fm 14). Non è infatti necessario essere cristiani. È bello, riempie la vita, pone nel nostro cuore una meravigliosa speranza. Un po’ come Dio, che non è necessario, come tutte le cose che ha creato e compiuto. Eppure è. Semplicemente è. Come anche noi possiamo essere: simili e somiglianti al suo bel volto.


Commenti

anna ha detto…
Mettessimo il "caso" che Dio non ci fosse io sarei uno zombi infelice che vaga sulla terra alla ricerca della felicità senza trovarla in ciò che è creato o sta lì per caso? Non c'è libertà se non in colui che mi ha liberato dalle pretese di cavarmela da sola e dall'ansia di prestazione che mi impedisce di prendere la croce e cioè di accogliere e assumere la mia umanità con tutte le sue sfumature brutte o belle che siano e poi correre verso la mèta: Gesù!!Perchè tu sei il più bello Gesù!!