XXI Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: Is 66,18b-21 / Sal 117 / Eb 12,5-7.11-13 / Lc 13,22-30


LA PORTA STRETTA



Non di rado le domande che poniamo contengono già le risposte e manifestano ricche tracce del pensiero che sta alla loro origine. Di questa medesima stoffa sembra essere fatta la domanda che dà avvio al vangelo di questa domenica, con la quale «un tale» (Mt 13,23) interroga il Signore Gesù mentre insegna e cammina «verso Gerusalemme» (13,22): «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (13,23). Una domanda gigante, cruciale a cui il Maestro sceglie di non rispondere, spostando altrove lo sguardo. Non certo per sottrarsi a un difficile confronto, ma per coinvolgerci in una riflessione ancora più interessante.


Domande sospette

L’interrogativo dell’anonimo personaggio - che essendo senza nome, forse, ci vuole tutti rappresentare - suona subito sospetto. Perché in «pochi» dovrebbero salvarsi? Sin dai tempi più antichi, i profeti avevano annunciato una salvezza che Dio avrebbe esteso con estrema generosità, «a tutte le genti» e a «tutte le lingue» (Is 66,18). Persino dai popoli stranieri, il Signore avrebbe attinto i suoi ministri: «Anche tra loro mi prenderò sacerdoti levìti» (66,21), affinché la sua gloria fosse annunciata a tutti. Come mai questo tizio invece nutre il sospetto che nel regno di Dio ci saranno probabilmente poche persone? Si tratta di un sottile e continuo pensiero che attraversa ciascuno di noi, e si materializza in tutti i moralismi con cui tracciamo confini tra buoni e cattivi, belli e brutti, giusti e ingiusti. Dentro di noi è sempre assillante il bisogno di stabilire un gruppo di persone riuscite e vincenti nel quale, naturalmente, vogliamo e dobbiamo far parte anche noi. Sembra normale ragionare così, soprattutto quando il mondo appare caotico e fluido, un coacervo di situazioni segnate da un’insondabile e preoccupante diversità.


Durezza/Correzioni

Il Signore però non sembra gradire la direzione della domanda. Anzi, storce sempre il naso quando ci mettiamo a teorizzare troppo, discutendo sui massimi sistemi, anziché mantenere uno sguardo limpido e responsabile sulla nostra vita. Perciò dice: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (Lc 13,24). Per spiegare l’immagine - molto concreta ma di fatto poco chiara - ricorre ad una parabola, dove i discepoli vengono descritti come quei servi che il padrone non riconosce quando bussano alla sua porta: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!» (13,27). Un registro duro e secco, con cui Gesù compie quel difficile atto d’amore che la Scrittura chiama correzione: «Il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio» (Eb 12,6). Talvolta Dio non ha davvero altre strade se non quella di una percossa che può risvegliare il nostro animo intontito nei labirinti mentali in cui facilmente ci cacciamo e ci nascondiamo, anziché affrontare il volto esigente della realtà. Attraverso la metafora di una porta stretta con cui fare i conti, il Maestro sembra dirci almeno un paio di cose. Anzitutto è importante rimanere su un piano personale, dichiarando che il problema della vita non si risolve attraverso teorie, ma mediante opportuni atti di libertà. In secondo luogo, trasferendo la piccola misura di salvezza che noi sospettiamo sulla dimensione della porta che siamo chiamati a varcare, il Signore sembra suggerirci che dobbiamo diventare capaci di allargare la misura del nostro sguardo, per giungere a un modo di vivere più misericordioso e aperto.


Affermazioni chiare

Perché il Signore ci rivolge parole che non sembrano «sul momento causa di gioia, ma di tristezza» (Eb 12,11)? Come mai di fronte alla paura di non salvarci, cioè di perderci nel difficile viaggio della vita, il Pastore buono ricorre a immagini e profezie che possono addirittura terrorizzare l’animo delle sue pecore: «Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori» (Lc 13,28)? Forse perché solo con una strigliata chiara e forte, noi talvolta possiamo fare un balzo fuori dalle paure e rientrare nella avvincente missione che Dio ha posto sulla nostra vita. Solo con una parola di correzione che fa anche soffrire ci accorgiamo che le «mani» sono diventate «inerti», le «ginocchia fiacche» (Is 66,12) e «i piedi» (66,13) da tempo ormai zoppicano. Ed è per questo - sì, anche per questo - che tutto ci sembra doloroso e deprimente: perché siamo rimasti privi della Buona Notizia; ci siamo dimenticati che vivere non significa salvarci la pelle, ma essere capaci di sciupare la vita per amore, a partire dall’esperienza di sentirci amati, teneramente e fedelmente, da Dio. Non con i lustri e i parametri di una vita ben riuscita agli occhi degli altri. Non con la coerenza di chi si mantiene fedele e capace con le proprie forze. Ma con la semplice realtà di un vivere con «pace e giustizia» (Eb 12,11) alla luce di un amore capace di perdono, fino a diventare «un segno» (Is 66,19) discreto e convincente di quella vita nuova che Dio prepara per tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Nel suo regno, dalle porte larghe e dalle stanze accoglienti.


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