Martedì - XX settimana del Tempo Ordinario

Letture: Ez 28,1-10 / Dt 32 / Mt 19,23-30


SUPERBIA



Definita nei dizionari come una «radicata convinzione della propria superiorità» (Devoto Oli), la superbia viene oggi denunciata dalle Scritture come una pericolosa malattia del «cuore» (Ez 28,1), capace di condurci a un vero e proprio delirio, se non di onnipotenza, almeno di tronfia autosufficienza: «Io sono un dio, siedo su un trono divino in mezzo ai mari» (28,2). Il potente «principe di Tiro» (28,2) viene apostrofato con vigore dal profeta Ezechiele, a causa del suo essersi «inorgoglito» (28,5) per le «ricchezze» accumulate, per gli innumerevoli «traffici» (28,5), per gli scrigni zeppi di «oro e argento» (28,4).


Se può risultarci lontana sia la condizione del re di Tiro, sia la boria della sua supponenza, forse possiamo riflettere sui diversi modi con cui anche noi riusciamo a dimenticare il nostro statuto creaturale, immaginando che le cose ruotino attorno a un centro che, in fondo in fondo, siamo sempre noi. La superbia infatti non si sviluppa soltanto a partire dal benessere o dal successo. Viene generata e alimentata anche dalle ferite e dalle sventure, a patto che le facciamo diventare più grandi e più determinanti di quanto conviene. Il problema sta tutto nel cuore che diventa patetico e stolto tutte le volte che sovrastima il tesoro, più o meno consistente, che è stato «ammassato» (28,4) nei forzieri della nostra esistenza.


Il Maestro Gesù ci direbbe che stiamo falsificando le nostre reali misure percependoci come un «cammello» (Mt 19,24) anziché come un semplice «uomo» (Ez 28,2). E diventa difficile entrare nel sottile gioco della vita quando si è persa la propria identità. Addirittura «impossibile» (Mt 19,26) se il nostro cuore è caduto nella trappola di sentirsi «ricco» (19,23), cioè arrivato e sazio. Occorre un ribaltamento, una conversione, come quella che il Signore per primo ha fatto per noi. «Gesù Cristo - infatti - da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (canto al Vangelo). Anche a noi è chiesto di lasciare, quando sorge il ragionevole sospetto che la vita sia diventata pesante e irrisolvibile. Tutto, senza sconti: «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi» (19,29). La profezia del «regno di Dio» (19,24) non è al condizionale: «Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi» (19,30). Perché aspettare ciò che possiamo anticipare? Lasciamoci andare.


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