XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: 1Re 19,16b.19-21 / Sal 16 / Gal 5,1.13-18 / Lc 9,51-62


USCIRE DALL’INFANZIA



In questa domenica la liturgia ci mostra un Maestro talmente convinto della decisione presa dal suo cuore - rivelare al mondo il volto del Padre - da essere capace di indurire il volto per compiere il «cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51). Questa determinazione non può mai autorizzare forme di esclusione o di aggressione verso gli altri. Semmai ci impone di congedarci seriamente da quell’io infantile ed egoista, che rischia continuamente di perdere la libertà di trasformare la nostra vita in un «generoso servizio dei fratelli» (cf. Colletta).


Il mantello addosso

Eliseo se ne stava tranquillo seduto sull’ultimo di «dodici paia di buoi» (1Re 19,19). La gestione dell’azienda di famiglia, fatta di campi da arare e di animali da guidare, era il suo abituale trantran. Eliseo veniva da una famiglia buona e agiata: non era certo da tutti possedere un numero considerevole di bestie e poter disporre di un aratro. All’improvviso gli passa «vicino» Elia, il profeta ardente come il fuoco, e gli getta «addosso il suo mantello» (19,19). Un gesto fortissimo, profondamente simbolico. Il mantello infatti, nel linguaggio biblico, rappresenta la persona stessa che lo possiede. È il diritto inalienabile dei poveri, l’indispensabile protezione contro le insidie del deserto, che di giorno stronca il vigore con il caldo mentre di notte colpisce con il freddo. Eliseo è sicuramente stupito e turbato. Un po’ come se il papa si fermasse un attimo accanto a noi, si togliesse le sue scarpette rosse e le deponesse ai nostri piedi. Come se il Dalai Lama ci coprisse improvvisamente con la sua conosciutissima tunica rossa. Nei momenti di forte emozione spesso esce verità dal nostro fiato: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò» (19,20). Eliseo cerca di dilazionare l’urgente chiamata che ha appena ricevuto, indicando una ragione nobilissima: il saluto a mamma e papà. Per niente accondiscendente la risposta del profeta: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te» (19,20). Non un permesso a congedarsi da casa, ma un rimprovero che si tradurrebbe meglio così: «Vai, vai, torna pure indietro, non hai proprio capito che cosa ho fatto per te». Elia ammonisce Eliseo con gravità, perché si accorge che il suo ‘io infantile’ accampa scuse di fronte alla chiamata a diventare un ‘io adulto’.

Seppellire i morti

Questa tendenza a rinviare e a non scegliere manifesta la nostra più radicata debolezza nei confronti delle chiamate che Dio pone sul nostro cammino. Esistono momenti e occasioni, in cui gli eventi della vita vanno letti come un preciso invito del Signore: «Seguimi» (Lc 9,59). La lista potrebbe estendersi in mille direzioni: l’incontro con una persona speciale, l’innamoramento, la nascita di un figlio, la scoperta di un’attività che diventa così importante da assorbirci pienamente, oppure una malattia che ci segna per sempre, un incidente, un imprevisto che traccia un prima e un dopo nello scorrere dei nostri giorni. Infiniti sono i mantelli che ci cadono addosso e hanno bisogno di essere interpretati come un invito ad assumere l’urgente compito di dare forma alla nostra libertà, compiendo scelte a assumendo responsabilità da portare avanti con «forza e dolcezza», con «fedeltà» (cf. Colletta). Proprio in questi momenti, purtroppo esce allo scoperto il bambino che è in noi e che rifiuta di crescere. Quell’io infantile che ha le sue «tane» (Lc 9,57) e i suoi nascondigli, dove si illude di poter consumare l’esistenza come qualcosa da ricevere e non da donare. Quell’io insicuro e capriccioso che ripete come un giradischi inceppato: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre» o «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia» (9,59.61). Seppellire i morti, congedarsi da casa significa risolvere l’infanzia, regolare il contenzioso paterno, chiudere definitivamente i conti col passato. Attività legittima entro certi limiti, estremamente fashion nella nostra era psicologica, assolutamente inutile, anzi dannosa, quando il Signore ci informa che ormai siamo suo figli amati, «chiamati a libertà» (Gal 5, 13), quando la nostra vita è finalmente animata dalle promesse di Dio e non dalle premesse della sua infanzia.

Annunciare il Regno

«Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio» (Lc 9, 60). In queste parole del Maestro Gesù possiamo raccogliere un grido che vuole scuotere la nostra volontà dai suoi torpori, simile a quello con cui Paolo incalza i Galati: «Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). Viene un momento in cui l’unica cosa che resta da fare è lasciare che ciò che è morto muoia e ciò che deve nascere finalmente nasca. Vivere infatti è accettare la trasformazione di una vita piccola - quella che sperimentiamo in questo mondo - in una vita immensa, che non finisce più «mediante l’amore» (5,13). Non è possibile risolvere fino in fondo la nostra infanzia, con tutti i suoi traumi e i suoi scompensi. Ciò che può salvarci dai recinti di questo mondo segnato dal peccato è la missione che Dio ci affida e che può innestarsi proprio su quella umanità un po’ bella e un po’ brutta, un po’ matura e un po’ adolescente che ci troviamo cucita addosso. Pretendere di risolvere il macello della nostra storia prima di rispondere a Dio è il disperato tentativo di cavarcela da soli, di guarire con le nostre forze. Dio ci ha acquistati così come siamo! E così come siamo - non come potevamo essere - ci chiede di essere annuncio del suo regno. In questo modo, sempre, si ricomincia a essere discepoli: abbandonando le domande inutili, smettendo di volgersi indietro a curiosare quello che abbiamo lasciato alle spalle, non entrando più nei labirinti della memoria e delle paranoie mentali. Abbiamo tutti una missione da compiere, una parola da annunciare, una «pienezza» (Gal 5,14) d’amore da vivere. Siamo cristiani, uomini e donne guidati «dallo Spirito» (5,18), discepoli felici «chiamati a libertà» (5,13).


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