II Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: Is 62,1-5 / Sal 95 / 1Cor 12,4-11 / Gv 2,1-12


LA GIOIA DALL'OBBEDIENZA



All'inizio del tempo ordinario, la liturgia ci regala l'occasione di meditare «sull'inizio dei segni», con cui Gesù di Nazaret cominciò a manifestarsi al mondo con la «sua gloria» (Gv 2,11) di Figlio di Dio. Prima di avventurarci in un nuovo anno liturgico, accompagnati dall'evangelista Luca, in questa domenica ascoltiamo una pagina splendida e celebre tratta dal vangelo di Giovanni: le nozze di Cana.


Stranezze

I fatti sono piuttosto noti: «la madre di Gesù» (2,3) sta partecipando ad un banchetto nuziale «a Cana di Galilea» (2,1), a cui è stato invitato anche il Maestro con i suoi primi discepoli. Ad un tratto viene «a mancare il vino»; una tragedia per una festa di nozze! La madre, premurosamente, fa notare la cosa al figlio: «Non hanno vino» (2,3). Gesù sembra dare una rispostaccia alla madre: «Donna che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (2,4). La madre propone ai «servitori» di dare fiducia a Gesù. Lo faranno, riempiendo sei giare di acqua che, miracolosamente, verranno gustate dal direttore del banchetto come «vino buono» (2,10). Sembra, a prima vista, la cronaca di un miracolo, uno dei tanti gesti prodigiosi compiuto dal Signore Gesù in questo mondo. Però, ad uno sguardo più attento, il racconto è pieno di strani particolari: la sposa non compare mai, lo sposo soltanto per ricevere i complimenti quando il vino torna sulle tavole, le giare sono sei (cioè il numero della perfezione meno uno) e gigantesche (circa seicento litri complessivamente), c'è un antipatico dialogo tra Gesù e Maria e, dulcis in fundo, la menzione del prodigio fatta soltanto con un accenno, peraltro in una frase secondaria («E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino...» 2,9). Infatti, di miracolo non si tratta. Giovanni, scrivendo un vangelo molto particolare, lo presenta come «l'inizio dei segni compiuto da Gesù» (2,11). Che differenza c'è tra un miracolo e un segno? Un miracolo è una improvvisa e fluorescente interruzione dell'ordine naturale della realtà. Un segno invece è l'apparire - talvolta improvviso - di un significato profondo della realtà che non luccica e non si impone. Secondo Giovanni, il Signore Gesù non ha compiuto miracoli, ma segni. Ha, cioè, manifestato con gesti e parole l'irruzione del regno di Dio dentro la vicenda umana, lasciando a noi la possibilità di interpretare la luce discreta di questi segni.


La madre e i servi

Lo scambio di battute tra Maria e Gesù non appare proprio come uno dei migliori passi della sceneggiatura del vangelo. Facciamo fatica a capire cosa voglia dire il Maestro con quelle parole brevi e secche, con cui risponde alla preoccupazione della madre: «Che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora» (2,4). Una diversa traduzione di questo versetto, molto apprezzata e utilizzata in antichità nelle chiese orientali, pone un punto di domanda anche alla fine della seconda frase: «Non è ancora giunta la mia ora?». L'aggiunta è legittima, visto che i punti di domanda nei testi originali in greco non sono mai scritti, ma spetta ai traduttori aggiungerli. La frase assume una sfumatura diversa. Gesù non sta liquidando Maria, ma la sta interrogando. Sente che ormai l'ora della sua manifestazione al mondo è giunta e chiede a sua madre se è disposta a mettersi da parte e, tornare ad essere «donna», dopo essere stata sua «madre». Maria capisce e accetta; dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (2,5). Non teme, la madre, di perdere consegnando il suo Figlio al mondo. Non ha paura di spezzare i vincoli della carne, per aprirsi ai legami dello spirito. Anzi, è felice di rivelare il segreto della sua maternità: obbedire alla parola di Dio, dare fiducia a quello che il Signore dice. Questo è quello che fanno i servitori, mettendo in pratica un comando piuttosto stravagante: riempire grosse giare con seicento litri d'acqua, mentre in una festa quello che sta mancando è il vino! Eppure, proprio attraverso questa obbedienza fiduciosa, le nozze tornano ad essere una festa gioiosa, a cui non manca «il vino buono» (2,10) dell'allegria.


Il segno

Lo strano racconto di Cana, che non è un miracolo bensì un segno, può illuminare molto la nostra vita. Davanti a queste nozze compromesse in cui torna la gioia, ritroviamo facilmente la nostra storia. Ogni vita, in un modo o nell'altro, è come una festa che ad un tratto entra in crisi. Possiamo fingere per un po' che non sia vero, racimolare i nostri migliori istinti, organizzare le residue forze della nostra volontà, ma lo scacco è, prima o poi, veramente matto. Perché sempre la vecchiaia viene dopo la giovinezza, la fatica dell'amore dopo l'ebbrezza dell'innamoramento, il tradimento e la solitudine dopo la gioia delle promesse. Perché la morte è l'orizzonte verso cui tutti tendiamo. Ma il segno dell'acqua diventata vino che restituisce il meglio alla fine della festa, ci ricorda che la presenza di Dio in questa bizzarra avventura del vivere umano rovescia le sorti. Alla fine non c'è la la fine, ma l'inizio di una felicità più grande. Il nostro destino non è né la solitudine né il divorzio, ma «la gioia delle nozze eterne» (cf. Colletta) con Dio. Come i profeti già cantavano: «Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioie e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo» (Is 62,4). Dio però non rovescia le sorti con la bacchetta magica, ma con l'assenso della nostra libertà alla sua voce. Nella misura in cui diciamo «sì» ai suoi innumerevoli inviti, sparsi nelle nostre giornate, noi trasformiamo la storia ridandole il sapore della festa. Non è detto che a noi tocchi sempre gustare il ritorno del vino (come non accade ai servi), che magari è destinato a ridare gioia ad altri. Sempre, però, è riservata una speciale pace a coloro che obbediscono a Dio. Ai «suoi discepoli» (Gv 2,11) che, in questo mondo, provano sinceramente a fare «qualsiasi cosa» (2,5) il loro Maestro dovesse dirgli.


Commenti