XXVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Gen 2,18-24 / Sal 127 / Eb 2,9-11 / Mc 10,2-16


FEDELTÀ



Abbracciare la debolezza; tagliare quelle parti di noi che non sono ancora integrate nell'amore. A che scopo? La liturgia di questa domenica, mettendo a fuoco il tema della relazione uomo-donna, suggerisce una risposta. Nella misura in cui accogliamo gli inviti radicali del vangelo, la nostra umanità diventa capace di tendere alla fedeltà, indispensabile quintessenza di ogni autentica relazione d'amore.


Permessi

Certo, essere fedeli non è affatto semplice! Inoltre, la fedeltà in se stessa non è garanzia di una relazione matura e profonda. Il rischio del formalismo, così come la seduzione della trasgressione, si annida continuamente nelle fessure della nostra libertà. Eppure chi ama è fedele. E quando non riusciamo più ad amare è proprio la fedeltà il primo bene che viene a mancare. Già al tempo di Gesù, l'uomo invocava un condono di fronte alla fatica di custodire la fedeltà, come si evince dalla domanda di quei «farisei» che «si avvicinarono» al Maestro Gesù per chiedergli se era «lecito a un marito ripudiare la propria moglie» (Mc 10,2). Ogni relazione fondata sull'amore, presto o tardi, arriva al punto di poter spiccare il volo oppure ripiegare sul terreno dei diritti e dei doveri. Soprattutto di questo secondo risvolto abbiamo quotidiana esperienza. Ritirarci nei confini di ciò che è lecito è il più naturale meccanismo di difesa che attiviamo, quando l'amore ci chiede di cominciare a donare gratuitamente la nostra vita. Iniziamo con le promesse, finiamo con i permessi. Poi naturalmente sdoganiamo questi permessi facendoli diventare costumi sociali, come accade nella nostra società opulenta e triste, che non crede più nella possibilità di un amore duraturo. Che ha bandito il desiderio di un amore che sia per sempre.


Tradimenti

Il sogno di Dio è un altro, dice il Signore Gesù: «Dall'inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Dunque l'uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (10,6-9). Non dobbiamo leggere in queste parole una sorta di insensibilità di Dio di fronte alla nostra fatica nel volerci bene. Questo è quello che, con un po' di superficialità, si fa anche oggi nei confronti della morale che la Chiesa cerca di proporre a tutti i battezzati. Nelle parole di Gesù (e negli insegnamenti della Chiesa) c'è in realtà l'ostinata fiducia che «non è bene che l'uomo sia solo» (Gen 2,18) e che la vita in questo mondo sia l'unica occasione per vivere fino in fondo l'esperienza dell'amore. Cristo, diventando uomo, sa perfettamente quanto sia difficile - ieri come oggi - portare avanti un matrimonio. Egli sa quanti imprevisti, incidenti, ferite, dolori, violenze, si accumulino nel cuore di due persone che si vogliono bene, ma non riescono a donarsi completamente all'altro. Ma tutta la miseria e il male che si possono manifestare in mezzo ad un amore non inducono Dio a revocare il suo grande disegno su di noi. Per questo Gesù insiste, dicendo ai discepoli che ancora lo interrogano su questo argomento: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio» (Mc 10,11-12). Gesù radicalizza lo sguardo sui rapporti d'amore dicendo che, se proprio si vuole fare una distinzione, non è tra lecito e illecito, ma tra fedeltà e adulterio (infedeltà). È inutile chiedere permessi e dilazioni nel campo dell'amore. La chiamata a diventare una cosa sola con l'altro è totalizzante, vuole impegnare tutta la nostra umanità. Infatti, finché amiamo quando le cose vanno bene, che amore stiamo vivendo? Un amore ancora interessato, che riceve il contraccambio. Proprio quando il coniuge diventa all'improvviso «un aiuto» (Gen 2,18) che non ci corrisponde più, il nostro amore ha l'occasione di diventare autentico, liberamente offerto. È quello che ha vissuto il Maestro quando ha deciso di non ripudiare l'umanità - sua sposa - e «a causa della morte che ha sofferto» ha sperimentato «la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,9). Forse questa è la parte più scomoda e meno reclamizzata dell'amore umano, che diventa «perfetto per mezzo delle sofferenze» (2,10). Non perché Dio ami la sofferenza o ne abbia bisogno. Perché ai figli dell'uomo capita continuamente di versare odio e violenza sulla terra dell'altro. Ieri e oggi.


Senza vergogna

Il vangelo si conclude con un piccolo episodio, apparentemente di poco rilievo. Vengono presentati dei bambini ai Gesù perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverano. Il Signore si indigna e dice loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,14-15). Dai bambini, forse, possiamo imparare il segreto che riapre le porte dell'amore. Anche quando l'amore è ferito o tradito. Come essi non hanno «vergogna» (Eb 2,11) di lasciarsi abbracciare e toccare, anche noi possiamo ricominciare a vivere le nostre promesse d'amore mettendo da parte orgoglio e ferite e lasciandoci nuovamente incontrare dalle mani dell'altro. Mani che magari sono ruvide e secche, sporche e indegne. Mani che forse però implorano di essere nuovamente accolte. Per amore. Solo per amore.


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