Lunedì - XXVII settimana del Tempo Ordinario

Letture: Gn 1,1-2,1.11 / Gn 2 / Lc 10,25-37


OSSERVANZA



La prima cosa che colpisce il turista o il pellegrino, qui a Gerusalemme è la presenza di una moltitudine di segni religiosi. La città sacra per le tre grandi fedi monoteistiche offre con estrema naturalezza le forme visibili della fede in Dio. Abiti, riti, chiese, icone e simboli allestiscono il contesto quotidiano in cui si svolge la vita della gente. Soprattutto in questi otto giorni di Sukkot, la festa delle capanne, nei quali gli ebrei fanno memoria dell'esodo attraverso il deserto verso la terra promessa. La Torah ordina loro di utilizzare quattro specie di vegetali: il lulav (ramo di palma), l'etrog (ramo di cedro), un ramo di mirto e un ramo di salice. Niente di simile avviene più nel nostro sobrio occidente cristiano. Abbiamo rimosso i segni, abbiamo stabilito un asettico ambiente che ospita tutti senza dire più niente a nessuno. Eppure continuiamo ad osservare molti riti e prescrizioni. Non più quelle di Dio, dei padri, della tradizione. Quelle che impone il bon ton del terzo millennio. Vestiamo in un certo modo, parliamo secondo determinate categorie, acquistiamo prodotti condizionati dalla moda, coltiviamo la nostra immagine in base a standard di efficienza e di valore che assorbiamo dall'esterno. Eppure le regole, imposte o proposte che siano, per quanto necessarie, possono diventare un'ostacolo per la nostra umanizzazione. Questo ci ricorda il vangelo del 'buon samaritano', l'unica persona sufficientemente libera e leggera da potersi fermare davanti ad un moribondo ed avere «compassione di lui» (Lc 10,37). Gli altri - un sacerdote e un levita - non riescono a scorgere nel «caso» (10,31) di quest'uomo «mezzo morto» (10,30) un appello per la loro umanità. Considerano inderogabili le prescrizioni della Legge che impediscono loro di 'contaminarsi' prima dei riti sacri, e rinunciano a sporcarsi le mani con questo malcapitato. Così passano oltre. Saltano senza troppi imbarazzi l'ostacolo, ignari di omettere in questo modo l'osservanza della loro stessa umanità. Quando gli imperativi che ogni giorno muovono i nostri passi e animano i nostri progetti diventano troppo categorici, cominciamo a sfuggire l'appello più importante: quello dell'altro che ci chiede di essere accolto nella sua diversità, che ci chiede di diventare un segno di misericordia per la sua vita. È il problema di Giona, che non accetta di essere un messaggero della parola di Dio, una profezia del suo giudizio di verità e di perdono.


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