XX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Pr 9,1-6 / Sal 33 / Ef 5,15-20 / Gv 6,51-58


UN DIO DA MANGIARE



Un altro cibo. Un'altra vita. Sì, probabilmente siamo tutti abbastanza aperti a proposte come quelle che il vangelo ci ha rivolto in questo tempo d'estate. Il desiderio di una vita più bella, di un nutrimento migliore abita ciascuno di noi. Purtroppo spesso avvertiamo una incomprensibile difficoltà ad imprimere un concreto movimento alla nostra vita. Cerchiamo di essere cristiani, di rimanere in ascolto della buona notizia, di celebrare (come possiamo) il dono dell'eucaristia. Eppure il groviglio dei nostri giorni sembra impermeabile a tanta grazia che riceviamo. Perché la nostra vita fa fatica a gonfiarsi di eternità? Come Dio vorrebbe. Come noi vorremmo. Perché?


Cosa?

Il Maestro Gesù affonda il colpo verso la folla stordita dal peso del suo lungo (e complicato) discorso: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,51). Di fronte a queste parole i Giudei - gli uditori più teologicamente preparati - hanno un mancamento e si mettono a «discutere aspramente fra loro» attorno a questa ardita affermazione: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (6,52). Già come è possibile offrire se stessi come cibo? Cosa significa mangiare la carne di un altro? Come conciliare la proposta di una vita eterna con questo invito a cena che sa un po' di cannibalismo? L'abitudine, preziosa e feconda, di celebrare con regolarità l'eucaristia ogni domenica, forse ha smorzato in noi la forza di questi interrogativi che sono l'umanissima reazione di fronte ad una parola di Dio per nulla facile da comprendere. Gesù, a suo modo, spiega: «Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia (lett. mastica) la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (6,54). Per noi è più facile capire rispetto alla folla: Gesù sta alludendo alla sua passione, all'ultima cena, al suo dono d'amore. Tuttavia resta l'interrogativo: come è possibile che ciò accada davvero?


La fede

Conviene ammettere che esiste un grosso problema di fede davanti a queste parole di Gesù. La proposta è tanto meravigliosa, quanto bizzarra: è difficile crederla! E infatti, molto spesso, le nostre assemblee eucaristiche non mostrano affatto una fede all'altezza del mistero che celebriamo. Ci raduniamo, ripetiamo in modo meccanico parole e gesti, ci sforziamo di fare ogni cosa con dignità e decoro, ma qualcosa non funziona. Mancano quei segni semplici ed eloquenti che accompagnano un bell'avvenimento: la contentezza dei volti, l'armonia delle voci, la soddisfazione dei cuori. Quello che invece si vede ad esempio in altre mense, decisamente meno importanti ma largamente più diffuse: un ristorante, un bar, un pub. Questi luoghi, dove la gente si ritrova, mangia, beve e sta insieme, sembrano funzionare meglio delle nostre chiese. Sembrano più autentici, perché quello che essi propongono è esattamente quello che in essi accade. Le nostre celebrazioni invece difettano di autenticità: propongono più di quello che realmente offrono. Si candidano come l'occasione di entrare in comunione con il Dio vivente, mentre spesso sono celebrazioni monotone, annoiate, prive di entusiasmo e di partecipazione. Come mai la Messa appare al mondo il più delle volte come un vecchio ristorante, dotato di splendide insegne e sontuosi arredamenti, ma purtroppo mezzo vuoto e poco attraente? Personalmente credo ci sia solo una semplice e terribile risposta a questa domanda: ci manca la fede nei confronti di quello che celebriamo. Non crediamo realmente che la domenica quando andiamo a Messa noi mastichiamo la carne di Cristo e riceviamo in dono la vita eterna. Ci sembra impossibile che la sua carne sia «vero cibo» e il suo sangue «vera bevanda» (6,55). E la gente se ne accorge, perché non esprimiamo la gioia di avere un Dio così bello da lasciarsi mangiare.


I suoi frutti

Ma come fare per credere di più? Che cosa dovremmo imparare a credere meglio? Le parole di Gesù ci aiutano a ritrovare il centro della nostra fede: «Chi mangia (lett. mastica) la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6,56). Ecco ciò che accade quando ci nutriamo di Cristo: rimaniamo insieme, come eterni amici, amanti perfetti. Questo accade ogni volta che accogliamo con fede il pane di vita. Serve altro a due persone che si voglio bene? Direi di no. Infatti questo è tutto il desiderio di Dio: rimanere in noi, dentro la nostra storia, dentro le nostre gioie e i nostri casini. Come un amico fedele, che vuole conoscere e condividere la sua vita con noi. Potremmo chiederci se anche a noi questo basta, oppure vorremmo che accadesse qualcosa di più, vorremmo ricevere ulteriori segni di attenzione e affetto da parte di Dio. Ma cosa succede quando si rimane insieme? Si diventa simili: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (6,57). Nella misura in cui rimaniamo insieme a Cristo, impariamo a vivere per lui, cioè trasformiamo la nostra vita secondo la logica del vangelo, permettendo al suo Spirito di condurci su nuove strade. Sì, se ci rendiamo disponibili, il pane di vita di cui ci nutriamo può realmente trasformare il nostro «modo di vivere» (Ef 5,15), insegnandoci a fare «buon uso del tempo» (5,16) e a «comprendere qual è la volontà del Signore» (5,17) che possiamo compiere perché «ricolmi dello Spirito» (5,18) e della sua forza. Forse è semplicemente (!) da qui che potremmo ripartire. Dal capire e dal credere che mangiare Cristo non significa altro che rimanere con lui e diventare come lui: magari poveri, spesso ultimi, talvolta ignorati o derisi dal mondo. Però liberi, felici, capaci di amare. Vuoti di giudizi, pieni di una misericordia da raccontare. Forse allora le nostre chiese potrebbero diventare nuovamente attraenti e piene, vere assemblee di cristiani capaci di gustare e vedere «com'è buono il Signore» (salmo responsoriale).


Commenti

anna ha detto…
A me sembra di comprendere che la centralità di tutto il discorso di Gesù sul pane sia il Padre che viene menzionato moltissime volte. Vedere non sempre porta a credere ma vedere può voler dire adorare e si adora chi si ama, amare vuol dire credere in chi si ama. Il Padre, si dice nel capitolo 4 sempre di Giovanni, cerca coloro che lo adorano in spirito e verità. Dio è spirito non lo si può più cercare con la carne, ma con un corpo spirituale. Allora forse si può comprendere meglio come Gesù calca il discorso quando parla di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue per avere la vita eterna. La vita eterna è la relazione con il Padre, tutto e solo Amore, ma chi ha visto il Padre è il Figlio e se mangio il Figlio, anima e divinità, il mio corpo tutto viene trasformato in un corpo capace di adorare, amare il Padre in spirito e verità perché questa è la vita eterna. Ora tutto questo non è magia, ma è una vita intera in cui il cristiano si imbarca nei suoi vecchi padri e darei questi nomi alle vecchie passioni che fanno credere ad un cibo che perisce e che soddisfa solo il ventre. Occorre tagliare il cordone ombelicale nell’ascoltare cosa dice Gesù nel cap. 8 noi che abbiamo come padre il diavolo e vogliamo compiere i desideri del padre nostro…non vi è verità in lui.
Una chiesa che adora il Padre in spirito e verità è una chiesa libera, povera, semplice e bella! Allora credo che i nostri corpi saranno così luce nella chiesa e nel mondo da attrarre al Padre tanti fratelli e sorelle che stanno cercando Gesù in un cibo che perisce.