XVIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Es 16,2-4.12-15 / Sal 77 / Ef 4,17.20-24 / Gv 6,24-35


ALTRO CIBO



Il segno compiuto da Gesù domenica scorsa conteneva una catechesi difficile da accogliere, dura da assimilare. Al punto che il Maestro è costretto a fuggire da una folla che non sembra capire nulla, dopo essersi miracolosamente saziata di pane e di pesce. Si ritira sul monte, prega, prendendo le adeguate distanze dal bagno di folla e di emozioni. E poi, quando la folla allarmata lo insegue e lo raggiunge, non le manda certo a dire: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26).


False motivazioni

Serve una versione più prosaica del concetto? Siete degli opportunisti, cari miei: ecco come comincia il vangelo di questa domenica! Un bel rimprovero, una doccia fredda, che non gira attorno al problema. Gesù si accorge di essere amato e cercato per ciò che ha dato e non per ciò che egli è. La folla sta provando ad assicurarsi un benefattore, senza però riuscire ad incontrare il volto provvidente di Dio Padre. Coraggiosamente, il Maestro ricomincia ad insegnare: «Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà» (6,27). Gran parte della nostra vita, compresa quella di fede, è mossa dal bisogno di mangiare. È una legge fondamentale da cui nessuno scappa. Abbiamo bisogno di riempirci la pancia, ogni giorno, dal momento che non si può vivere a prescindere dal cibo. Molte delle cose che facciamo, molte delle parole che diciamo, molti progetti che elaboriamo sono esattamente in funzione di questa primaria necessità a cui dobbiamo continuamente rispondere. Quindi anche tante nostre preghiere e liturgie, molta della coerenza che riusciamo a vivere, sono in funzione dei doni con cui Dio può saziarci. Infatti non è solo il nutrimento biologico che andiamo cercando. Ciascuno di noi, in realtà, ha molte bocche da sfamare; tante almeno quanti sono i nostri sensi. Continuamente abbiamo bisogno di vedere, ascoltare, sentire, toccare, gustare. E quando non mangiamo abbastanza siamo frustati e nervosi. La fame ci muove e condiziona molti nostri rapporti, che diventano purtroppo strumentali ai nostri molteplici appetiti: affetto, considerazione, approvazione, stima, amore, e la lista potrebbe facilmente continuare. Dio si accorge di questo e ce lo dice. Con rispetto, amore, ma con manifesta determinazione. Anche perché i suoi occhi vedono bene quanto rimaniamo tutto sommato affamati, nonostante tutti i suoi doni e i nostri sforzi.


False necessità

Come mai infatti, pur sbattendoci ogni giorno con energia, facciamo esperienza di un certo vuoto la sera quando ci corichiamo? Che cosa ci manca? A quale mensa non ci siamo seduti? Che cosa ci siamo dimenticati di fare per essere felici e sereni? Sono gli interrogativi che si agitano davanti alla schietta parola di Gesù: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (6,28). Già, perché è sempre il fare che ci assilla, dal momento che la filosofia dominante ci assicura che uno vale tanto quanto riesce a produrre. Quindi se ci manca qualcosa significa che non abbiamo adeguatamente provveduto a tutti i nostri bisogni. Ma c'è un bisogno fondamentale che si colloca ad un livello più profondo di tutti gli altri. È il bisogno che siamo, in quanto creature, di essere conosciuti e amati. Prima e al di là di qualsiasi ruolo la vita ci abbia chiesto di assumere. Con questa fame, noi nasciamo. Ed è una fame che non si estingue mai, anzi si acuisce quando tentiamo di foraggiarla con cibo leggero, «che non dura» (6,27). Abbiamo bisogno di un altro cibo, di un pane sostanzioso «secondo la verità» (Ef 4,21), capace di darci «la vita» (Gv 6,33) e non i suoi derivati. Questo è proprio il cibo che Gesù intende darci: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane del cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane del cielo, quello vero» (6,32). Il problema è che questo cibo non possiamo né fabbricarcelo, né procurarcelo con le nostre forze. È un regalo che dobbiamo imparare a ricevere. Questa è proprio «l'opera» che Dio ci chiede di compiere: credere «in colui che egli ha mandato» (6,29) a raccontarci il suo amore. «Infatti», continua Gesù, «il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (6,33). Come Israele ebbe bisogno di essere sostenuto con un regalo dal cielo, così anche noi abbiamo bisogno di un «segno» (6,30) che ci aiuti a dare un senso all'avventura che viviamo in questo mondo. Altrimenti continuiamo a sbatterci pensando di dover fare un milione di cose, di avere innumerevoli necessità da soddisfare. E restiamo stanchi. Irrimediabilmente famelici.


Un altro pane

Gesù ci propone di cercare un pane diverso, che nutra il senso dell'esistenza che viviamo. Ci invita a sollevare lo sguardo per riconoscere dietro i doni della vita la mano del Padre, il suo amore fedele. Per farlo dobbiamo imparare a «conoscere» nel «Cristo» (Ef 4,20) il «pane della vita» (Gv 6,35). Ciò significa imparare a seguire i suoi passi, apprendere dal suo vangelo i criteri per scegliere e decidere, assumere gli altri come fratelli. Non è un'operazione facile, una svolta che si compie una volta per sempre. Bisogna lottare ogni giorno contro i «vani pensieri» (Ef 4,17) che affollano la mente, «abbandonare» le «passioni ingannevoli» (4,22) che tante volte ci mordono lo stomaco, rivestire «l'uomo nuovo» (4,24) e rinnegare quello «vecchio» (4,22). Però ne vale la pena, perché la prospettiva è immensa: «Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (6,35). Fino a quando la nostra vita rimane fondata sui nostri tentativi di provvedere a noi stessi, dovremo sempre lottare per strappare alla vita il cibo di cui sentiamo bisogno. Finché restiamo schiavi dei morsi della fame, saremo soprattutto capaci di mordere. I nostri giorni resteranno duri, e pieni di errori. Nella misura in cui impariamo a credere che Dio è nostro Padre e Cristo il vero nutrimento di cui abbiamo bisogno, la nostra fatica quotidiana può diventare un «carico leggero» (Mt 11,30), un'operazione serena. Perché il cuore si libera da quella paura, da quel rumore di fondo che disturba ogni nostro giorno. Improvvisamente, ci scopriamo capaci di vivere e anche di morire, pronti a dare perché felici di aver ricevuto. Sazi, insomma.


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