XVII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: 2Re 4,42-44 / Sal 144 / Ef 4,1-6 / Gv 6,1-15


LA NECESSARIA CONDIVISIONE



Il frutto del vero riposo è la compassione (domenica scorsa). Questa profondità d'animo che muove il nostro cuore di fronte all'altro non conosce altra modalità di esprimersi se non nello spirito di condivisione. Oggi ascoltiamo, nella dettagliata versione dell'evangelista Giovanni, il racconto della cosiddetta 'moltiplicazione dei pani e dei pesci', uno dei tanti segni che Gesù ha compiuto e che noi ci ostiniamo a leggere al rovescio. Mentre ci piace continuare a pensare ad un Dio che sovverte le regole del gioco compiendo prodigi, la cronaca delle Scritture sacre ci costringe a riconoscerlo nel segno debole dell'amore che si dona e si spezza. Più che una moltiplicazione il vangelo ci offre il racconto di una coraggiosa divisione dei pani e dei pesci, poca roba che però alla fine lascia tutti sazi e contenti. Gli errori di denominazione degli episodi biblici la dicono lunga su quanto per noi resti difficile accettare la logica del vangelo. Accomodamenti, traslazioni di significato, inadeguate etichette sono la goffa segnaletica che rivela tutta la nostra reticenza a rimanere discepoli.


Alzare lo sguardo

Mentre il giorno volge al termine, una grande folla si raduna attorno al Maestro seduto sul monte con i suoi discepoli. La fame inizia a farsi sentire e... E Gesù si diverte a torturare i suoi amici, rivolgendosi a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (Gv 6,5). Annota con pungente ironia Giovanni: «Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere» (6,6). In che cosa consiste la prova? Perché Gesù si prende il lusso di questa simpatica battuta? Probabilmente vuole condurre Filippo e gli altri ad alzare «gli occhi», come egli ha appena fatto, osservando «una grande folla che veniva da lui» (6,5). È il primo insegnamento di questo vangelo, il primo soccorso al nostro animo talvolta rassegnato, spesso pericolosamente incurvato e miope. Il Signore invita i discepoli a misurarsi con la folla e con la sua fame, a non chiudersi nella bella esperienza che stanno vivendo, dimenticando il mondo con i suoi problemi. E, nel contempo, li costringe a misurarsi pure con i loro limiti, con la loro piccolezza. Ci serve proprio questa impennata di sguardo, per osservare tutta la figura e non solo il nostro dettaglio, la nostra famiglia, i nostri risultati raggiunti. Per tornare ad essere e a sentirci davvero umani, provvisori ospiti di un pulviscolo sospeso nel tempo e nello spazio, spiriti incarnati chiamati senza preavviso all'avventura di una infinita esistenza. Ci serve eccome alzare un po' gli occhi, per gettare lo sguardo oltre le nostre pianificazioni, al di là dei nostri godimenti e delle nostre paure.


Frugare le tasche

Filippo, da buon greco (secondo quanto ci rivela l'etimo del suo nome) non può che valutare la situazione in termini abbastanza razionali: «Duecento denari non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo» (6,7). Il più fine ragionatore tra i discepoli ha fatto i conti e non ha trovato alcuna soluzione; il problema è irrisolvibile! Già è vero: cosa siamo noi di fronte al mondo e alla sua fame? Nulla, proprio nulla. Anche noi così in fondo ragioniamo così, perché sempre tendiamo a valutare le cose sempre in termini economici: comprare, distribuire, vendere. Di fronte ai problemi cerchiamo di procurarci mezzi e soluzioni, di acquistare il potere necessario per saperli gestire; magari risolvere. Ciò funziona, almeno in apparenza, nel mondo del commercio, ma non nelle cose importanti della vita che non si possono né comprare, né vendere. Ossessionati da questa logica economica, ci ritroviamo non di rado paralizzati, con la ragione in tasca e il motore imballato, incapaci di rispondere alle domande che la vita continuamente ci pone. Cosa fare di fronte ad un matrimonio incrinato o andato in frantumi? Come educare oggi dei ragazzi in mezzo a questo 'rock'n roll affannoso dei bisogni e dei desideri dove ci si dimena in pista solo per se stessi' (E. De Luca)? Come praticare il valore della giustizia in un mercato spietato e selvaggio dove mors tua vita mea? Come continuare a coinvolgerci nell'avventura della Chiesa, in un mondo che uccide la testimonianza cristiana con la sua indifferenza? Niente, non esistono risposte. I problemi sono infinitamente più grandi di noi. Ha ragione Filippo.


Aprire la schiscètta

Un «ragazzo» spunta improvvisamente, facendosi voce di una smarrita sapienza. Andrea, non greco e sicuramente meno riflessivo, lo presenta subito al consesso degli adulti: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?» (6,9). Tutti, probabilmente annuiscono al ragionamento del discepolo, pronti a congedare l'ingenuo fanciullo. Tutti, tranne il Maestro, che replica: «Fateli sedere» (6,10). Nella disponibilità di questo ragazzo il Signore ha riconosciuto tutto ciò che serve: la capacità di aprire la schiscètta* ed offrire il poco che si ha. Cinque pani e due pesci sono davvero poco, la conveniente razione di cibo per una persona che si assenta da casa per un breve periodo. Ma la scelta di metterli in gioco li impreziosisce di un inestimabile valore aggiunto, che il Signore Gesù prontamente riconosce e accoglie. Anche noi abbiamo i nostri frigoriferi provvisti di tutto (e anche di più), le riserve finanziarie prudentemente distribuite e investite, le mensole attrezzate di terapie per ogni evenienza. E, purtroppo, tutto questo ci basta. A noi, s'intende. Abbiamo perso l'abitudine e il desiderio di tirar fuori il nostro poco ed offrirlo. Pensiamo che in fondo non serva più, che non sia necessario. Tanto il mondo non si cambia e le cose restano irrimediabilmente sbagliate e irrisolte! A questa triste prudenza siamo senz'altro condotti da una cultura superficiale ed egoista. Ma anche dalla memoria delle ferite che abbiamo accumulato cercando di aprirci e di donarci. Spesso il dolore stronca e inacidisce, convince il cuore a tener ben serrato il coperchio della nostra schiscètta.

(* Per chi non fosse familiare con il dialetto milanese: il termine 'schiscètta', nel gergo meneghino, deriva dal verbo 'schiscià', che significa schiacciare, premere. Indica un semplice e rudimentale portavivande che operai, muratori e manovali, povera gente che lavorava sodo e non poteva permettersi il ristorante, si portava da casa per la pausa pranzo, con il cibo che la mamma o la moglie aveva preparato).

(Fra)intendimenti

Gesù prende la merenda del ragazzo, rende grazie a Dio e la dona alla folla, ormai seduta comodamente sulla «molta erba» (6,10) presente in quel luogo. Accade l'imprevedibile: cinquemila capifamiglia, insieme alle loro mogli e ai loro figli, riescono a mangiare «quanto ne volevano» (6,11). Quando tutti sono «saziati» (6,12) si possono addirittura raccogliere i pezzi «avanzati», tanto da riempire «dodici canestri» (6,13). È accaduta una cosa straordinaria! Il poco di uno, messo nelle mani di Cristo, ha trasformato una collina deserta in un banchetto felice, una folla affamata e dispersa nell'armonia di «un solo corpo e un solo spirito» (Ef 4,4). Il poco condiviso è diventato sufficiente, anzi più che sufficiente per tutti. Questa è l'esperienza che il Signore vuole farci vivere. Dietro questo vangelo c'è una forte «chiamata» (4,1) a identificarci con quel giovane – senza nome – che osa aprire la sua schischètta per donare ciò che vi è dentro. Dio è capace di trasformare il nostro poco in molto e farci scoprire che la vita è molto più grande di quella che pensiamo di poter vivere. Per farlo però, dobbiamo fare attenzione a non fraintendere il segno compiuto da Gesù. Quanto è accaduto sulle colline della Galilea quel giorno è anticipazione di quanto avverrà più tardi sul legno della croce, dove Cristo si lascerà spezzare dalla morte per diventare vita del mondo. Questo è ciò che anche noi siamo chiamati a fare: lasciarci spezzare dagli appelli della vita, affinché quel poco che siamo diventi amore che si offre. Questo significa aprire «in maniera degna» (Ef 4,1) la nostra schischètta. L'alternativa è fraintendere il segno, come ha fatto la folla. Illudersi che Dio sia il «re» (6,15) che ci risolve la vita ed agisce al posto nostro. Di fronte ad una simile ipotesi, persino Gesù è costretto a fuggire: «E si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo» (6,14).


Commenti

anna ha detto…
"Cosa siamo noi di fronte al mondo e alla fame?"
Vorrei essere non il giovane che offre appena quel che ha, ma la schiscètta che si dona così com'è.
Il mio essere "segno debole dell'amore che si dona e si spezza" permetterà a Gesù di fare il resto là dove sono o sarò.