XIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Ez 2,2-5 / Sal 122 / 2Cor 12,7-10 / Mc 6,1-1


IMPERMEABILI



Dopo aver visto come nasce la vera fede (in mezzo alla tempesta) e cosa essa è in grado di ottenere (il dono della vita), oggi le Scritture ci propongono di considerare l'esperienza opposta alla fede, tanto banalizzata e diffusa ai giorni nostri: l'incredulità. Con questa parola noi cristiani generalmente ci riferiamo a quelle zone d'ombre rintracciabili nella nostra volontà, oppure al carattere scettico e refrattario di alcuni credenti che hanno sempre bisogno di un'ulteriore verifica, prima di buttarsi con decisione nelle scelte. La Scrittura sacra – come sempre – ci restituisce un'immagine più ampia e interessante, mostrandoci come l'incredulità sia in realtà un'esperienza assai comune, poiché legata alla fatica di entrare in una buona relazione con i nostri limiti per poter far maturare la nostra umanità verso la sua pienezza.


Incredulità

La cronaca evangelica è parecchio scomoda. Gesù va nella sua patria e, di sabato, si mette ad «insegnare nella sinagoga» (Mc 6,2). Sembrerebbe un bel momento: la prima omelia di Gesù nella sua parrocchia! E invece accade qualcosa di strano. Pur apprezzando le sue parole e riconoscendo la bontà dei suoi gesti, i suoi concittadini ad un certo punto si bloccano, scandalizzati: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data» (6,2). Scrive Marco che Gesù diventa per loro come un sasso su cui si inciampa: «Ed era per loro motivo di scandalo» (6,3). Davvero strana questa reazione! Perché ciò che viene contestato a Gesù non è tanto il valore della sua profezia, ma il fatto che essa si presenti in un volto così assolutamente 'ordinario', nella voce di un «falegname» (6,3) come tanti altri. Perché facciamo così fatica a credere che Dio non ci parli dal cielo, ma dalla terra? Vorremmo un Dio che si presenta a noi con tuoni, fulmini e saette – il minimo apparato da allestire per gente così importante come noi!!! E invece Dio preferisce trattarci alla pari, si avvicina a noi senza alcun bisogno di sottolineare la sua superiorità. Con estrema semplicità ci parla attraverso le cose e gli uomini che sono attorno a noi. Purtroppo il nostro «cuore indurito» (Ez 2,4) è perennemente in attesa di cose straordinarie, di vibrazioni intense, di forti emozioni. Ne è ampia testimonianza il mondo che stiamo cercando di costruire, fatto di luci perenni, moltitudini di suoni, eccitamenti di ogni senso. Talmente assuefatti ed esposti alla fluorescenza di questo potente spettacolo, finiamo con l'essere stupiti non di fronte alle cose straordinarie, ma proprio quando ciò che è ordinario tenta di parlarci. È proprio l'ordinario che ci meraviglia e può diventare per noi «motivo di scandalo» (Mc 6,3). Davanti ad esso ci chiudiamo e ci blocchiamo. L'incredulità non è dunque soltanto la fede che non abbiamo nei passaggi difficili della vita (e chi ce l'ha?!), ma il cattivo stupore che proviamo di fronte all'ordinario flusso della vita, e che è conseguenza della nostra spasmodica ricerca di cose straordinarie, di meravigliosi rimedi ai guai presenti nella nostra vita. Per questo, prima di considerarci credenti o non credenti, dovremmo sempre avere il coraggio di riconoscere quale rapporto stiamo vivendo con la realtà, quell'incessante corteo di avvenimenti, parole, situazioni che costituiscono la trama dei nostri giorni.


Debolezza

Che sia la «debolezza» di cui parla Paolo il volto povero delle cose che non ci piace e ci scandalizza? Forse sì, ed è facile capire che l'antipatia nasca proprio dalla difficoltà ad accettare quella prima irriducibile debolezza che siamo noi stessi, con la nostra storia, le nostre virtù e le nostre miserie. Nemmeno per Paolo è stato facile ed immediato giungere ad un giusto rapporto con se stesso e con il proprio limite. Ha dovuto pregare, soffrire, meditare prima di poter ascoltare la voce consolante dello Spirito di Dio: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9). Tutti noi nasciamo con un pessimo rapporto con noi stessi; chi più, chi meno. A causa di questa originaria ed invisibile ribellione, tendiamo a rifiutare le cose ordinarie, diventando impermeabili alla profezia che esse contengono, sempre scandalizzati della loro «debolezza» che ci ricorda la nostra. Eppure Dio ci parla anzitutto così, attraverso la debolezza di tanti segni: la natura, la storia, gli uomini. Soprattutto coloro ai quali – non per i loro meriti – ha affidato il compito di portare al mondo la sua parola di salvezza. Nella prima lettura di oggi è curioso che Dio chieda al profeta Ezechiele di inviare al popolo quasi un messaggio vuoto: «Tu dirai loro: 'Dice il Signore Dio'» (Ez 2,4). Che cosa dice il Signore Dio? Niente, non lo sappiamo, non lo sa nemmeno il profeta! La missione consiste semplicemente (!) nel convincere il popolo a credere che Dio si sta mettendo in comunicazione con loro. La nostra prima ribellione a Dio è infatti l'incapacità di ascolto. Come mai? Perché facciamo così fatica ad accettare la realtà e un Dio che proprio attraverso la realtà desidera parlarci?


Novità

In un certo senso perché abbiamo paura di cambiare. Ascoltare infatti significa permettere ad un giudizio esterno di illuminarci, di trasformare la nostra vita, di modificare il corso degli eventi. Infatti ogni volta che ascoltiamo davvero, noi permettiamo ad un altro di esistere dentro di noi. E se l'Altro è Dio, ascoltare la sua parola significa accettare di entrare in una vita più grande e sconosciuta. Per questo restiamo impermeabili alla sua voce e molto arroccati nelle quattro sicurezze che abbiamo maturato a prezzo di ferite e dolori. Abbiamo paura di conoscere quanta vita può esserci in noi e di assumerne le conseguenze. Preferiamo circondarci di maestri mediocri che ci lusingano e ci sottovalutano, piuttosto che restare davanti a chi vuole condurci al meglio di noi stessi. Ci fa persino comodo rimanere dentro i confini di quel ruolo che la vita e gli altri ci hanno insegnati, molto spessi racchiuso dentro un soprannome, un'etichetta che non riusciamo più a scrollarci di dosso, scomoda e stretta come un abito di taglia inferiore. L'evangelo di questa domenica è tutto un invito a far resuscitare in noi lo stupore per le cose belle e grandi che il Signore vuole realizzare nella nostra vita. Laddove noi vorremmo trovare risposte forti per migliorare l'atmosfera dei nostri giorni, Dio ci propone di abbracciare senza alcuna esitazione tutta la nostra debolezza per scoprire che anziché fuggire da ciò che ci spaventa, possiamo persino compiacerci «negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce» (2Cor 12,10). Accettare la nostra debolezza significa credere alla novità di vita che Dio vuole realizzare nella nostra umanità. Non è un atto scontato. Quel giorno, nella sinagoga di Nazaret, molti preferirono rimanere attaccati ai loro soprabiti, piuttosto che lasciarsi denudare dalla forza gentile della nuova creazione. E noi che faremo? Rimarremo nascosti sotto i nostri impermeabili?


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