XIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Sap 1,13-15; 2,23-24 / Sal 29 / 2Cor 8,7.9.13-15 / Mc 5,21-43


Talità kum



Due donne in questa domenica stanno al centro della cronaca evangelica. Due racconti sapientemente intrecciati, sia sotto il profilo narrativo sia sotto quello del significato. Due donne così simili da sembrare una stessa creatura. Se domenica scorsa le Scritture ci indicavano la notte tempestosa come lo scomodo grembo da cui può nascere la fede, oggi ci mostrano che cosa la fede ottiene, quale dono è accordato a questo misterioso azzardo di cui è capace l'animo umano quando, spogliato e ridimensionato dall'avventura di vivere, si apre alla scoperta di una vita più grande.


Morire

C'è un uomo con «la figlioletta» che «sta morendo» (Mc 5,23). È un personaggio autorevole in Israele, «uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro» (5,22), tuttavia non teme di perdere la faccia di fronte agli altri, quando si trova a vivere un momento di estremo bisogno. Si getta ai piedi di Gesù e lo supplica «con insistenza» di andare con lui a imporre le mani sulla figlia «perché sia salvata e viva» (5,23). Gesù non dice nulla, ma fa tutto quello che serve: «Andò con lui» (5,24). Infatti, sebbene la Sapienza, racchiusa nelle Scritture e nella nostra ragione, ci dica che «Dio non ha creato la morte» e non può certo godere «per la rovina dei viventi» (Sap 1,13), la morte sembra; eccome! Ci passa accanto, ci accarezza, spezza improvvisamente i vincoli di affetto nelle nostre famiglie, nelle amicizie, nelle storie d'amore. Ci visita senza preavviso e con intensità. Nessuno escluso. Per questo il Signore si mette in cammino accanto alla nostra paura di affrontare questo terribile evento che, sempre secondo la Scrittura, «è entrato nel mondo» per «l'invidia del diavolo» (2,24), ma non fa parte del progetto di Dio.


Perdere la vita

Tutti facciamo «esperienza» (2,24) della morte, in tempi e modi diversi. Prima della morte fisica, ci può capitare di gustare surrettiziamente il sapore amaro della vita che se ne va. È la triste storia di quella donna «che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando» (Mc 5,25-26). Questa donna perdeva il sangue, cioè la vita, dalla sua ferita nascosta. È l'immagine di chi è leso nella sua intimità, di chi porta con sé una vergogna nella sua propria dimensione sessuale, affettiva, interiore. Una situazione molto più diffusa di quanto si possa comunemente immaginare. Questa donna ha cercato medici, che non hanno migliorato, ma solo peggiorato la sua situazione. Si parla qui dell'avventura della femminilità, questo meraviglioso riflesso della vita e della bellezza di Dio, che può conoscere il trauma di terribili ferite, umiliazioni, sanguinamenti. Molto spesso si cerca di tamponare il sangue che esce con soluzioni che non portano da nessuna parte, che magari consolano solo per un attimo, capaci di sollevare solo superficialmente l'infinita pesantezza del cuore. Questa donna, che secondo la Legge, è emarginata da ogni relazione e quindi confinata dentro un'assurda solitudine, sente «parlare di Gesù» (5,27) e con un silenzioso gesto, getta su di lui tutto il suo affanno: «da dietro toccò il suo mantello» (5,27). All'istante il sangue si ferma, la morte si interrompe; ritorna la vita. Gesù la insegue con gli occhi, con il cuore, mentre la donna ha paura. Non è disposta a raccontare la sua riposta sofferenza, ciò che da una vita la ferisce e la umilia. Tutti siamo così in fondo ai nostri dolori più profondi. Abbiamo l'impressione di essere persone a metà e, soprattutto, coltiviamo il sospetto che gli altri non conoscono debolezze così penose quanto le nostre. Questa donna si cimenta in un improvviso guizzo dal suo dolore, mossa dalla speranza che che almeno Dio, forse, può fare qualcosa per lei. Gesù la cerca e la trova in mezzo alla folla, per annunciarle finalmente che è finito il tempo della vergogna, le rivela che è stata la sua «fede» a farla entrare nella salvezza di Dio: «Va' in pace e sii guarita dal tuo male» (5,34).


Toccare e alzarsi

Poi il Maestro giunge nella casa del capo della sinagoga. La gente piange, urla, è disperata. Allora li apostrofa: «Perché vi agitate e piangete?» (Mc 5,39). Una domanda seria e fastidiosa, parecchio simile a quella che i discepoli si sono sentiti rivolgere dentro la barca sconvolta dalle acque: «Perché avete paura?» (4,40). Il Signore Gesù, prima di restituire la vita alla fanciulla, ci rivela il modo con cui Dio vede il dramma della morte: «La bambina non è morta, ma dorme» (5,39). Questo è ciò che Dio sempre pensa e vede in noi: corpi viventi, creati per una «giustizia» e una vita «immortale» (Sap 1,15). Per lui «le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c'è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra» (1,14). Ma tutti i presenti sorridono davanti a questo punto di vista. «E lo deridevano» annota laconicamente Marco (Mc 5,40). Ci è difficile uscire dai confini piccoli e rassicuranti del buon senso, per aprirci al Vangelo della vita che non muore più. Al Signore non rimane che creare silenzio e raccoglimento, e restituire vita alla vita che si era interrotta: «Prese la mano della bambina e le disse: 'Talità kum', che significa: 'Fanciulla, io ti dico: àlzati!'» (5,41).


Due donne. Da una parte e dall'altra di un'avventura: quella delle femminilità. Da una parte una bambina di dodici anni che doveva diventare donna, ma stava morendo. Dall'altra parte una donna che perdeva sangue da dodici anni. Una bimba che stava diventando donna e una donna che non riusciva più ad esserlo, perché la sua femminilità era mortificata. Poi una serie di tocchi e di movimenti del cuore. E la vita torna a scorrere. E la morte interrompe il suo terribile corso. La parola del Vangelo ci ricorda quanto la nostra vita sia in fondo una creazione da terminare. Nessuno di noi ha già finito di nascere, di crescere e di guarire. Nessuno di noi ha giù compiuto la missione di portare a termine la costruzione della propria umanità. In questa grande avventura i nostri sentieri interrotti non sono lasciati in balìa del destino, o imprigionati dentro i nostri invincibili dolori. Sono chiamati a toccare il lembo della misericordia di Dio e a conoscere la presa forte della sua mano piena di vita.


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